Memoria e Futuro
Un anno di più
Quando un anno fa ho iniziato a scrivere “Memoria e Futuro” per Gli Stati Generali non avevo in mente un progetto preciso. Non volevo costruire una rubrica nel senso tradizionale, quella con cadenza fissa e temi programmati. Quello che mi interessava, e che continua a interessarmi, è provare a tenere insieme i pezzi. I pezzi di un presente che sembra sempre più amnesiaco, di un passato che viene rimosso con metodica sistematicità, di un futuro che appare così comodamente come una pagina bianca su cui si può scrivere qualunque cosa.
Guardando indietro a questi mesi di articoli – e sono oltre duecento, molti più di quanti avrei immaginato di scrivere, all’inizio – mi rendo conto che c’è un filo rosso che li tiene insieme. È la lotta contro questa sorta di Alzheimer collettivo, contro quella tendenza a fingere che ogni cosa sia inedita, che ogni problema sia nuovo, che ogni scandalo sia senza precedenti.
La domanda che mi sono fatto è semplice: perché fingiamo sempre di scoprire per la prima volta ciò che sappiamo da ottant’anni? Per esempio, che Washington ha sempre voluto un’Europa forte abbastanza da essere un alleato utile, ma non così unita da diventare un competitor autonomo. Lo sappiamo. Lo abbiamo sempre saputo. Ma preferiamo fingere stupore. È questo esercizio di smemoratezza collettiva che mi irrita profondamente. Lo stesso meccanismo l’ho ritrovato analizzando la politica italiana, nelle critiche rivolte a chi governa come a chi sta all’opposizione.
Ripensando a questi mesi, mi chiedo spesso, con un po’ di sconforto: a cosa serve continuare a scrivere se l’amnesia collettiva sembra inattaccabile? Credo di aver capito, tramite questa pratica quasi quotidiana, che il lavoro sulla memoria non è un lusso intellettuale, ma una necessità politica. In un’epoca in cui tutto è senza precedenti, qualcuno deve fare il lavoro sporco di cercarli, i precedenti, di ricostruire le genealogie, di mostrare che è già successo.
Documentare è quasi un atto di resistenza, molto più che sbraitare di persona o online contro il nuovo mostro quotidiano. Quando scrivo, per restare agli ultimi mesi, che le pre-intese sono identiche, o che gli Stati Uniti hanno sempre avuto un atteggiamento ambiguo verso l’Europa, o che il suicidio assistito in Germania ha regole diverse, non faccio un esercizio accademico. Dico: ecco i fatti, ecco i documenti. Ora non potete più fingere di non saperlo.
Ho capito anche che la memoria senza analisi è solo nostalgia. Non mi interessa rimpiangere il passato. Mi interessa usarlo per smontare le narrazioni false del presente. La storia si ripete, seppur in forme diverse. Se non impariamo a riconoscere l’eco, finiremo per credere che ogni suono sia originale, che ogni problema sia nuovo, che ogni soluzione debba partire da zero.
Ma, in questi mesi, ho anche capito i limiti di questo sforzo. Scrivere sulla memoria è come gridare nel deserto se il sistema mediatico funziona secondo la logica dell’oblio programmato. A cosa serve documentare le contraddizioni se la discussione si riduce a un teatrino di posizioni preconfezionate? A cosa serve denunciare l’ipocrisia se tutti preferiscono continuare a fare in privato ciò che negano in pubblico?
Eppure continuerò. Perché l’alternativa sarebbe accettare che l’amnesia collettiva abbia vinto, che non ci sia più spazio per un giornalismo che prende sul serio i documenti, la storia, i fatti. E non sono disposto ad accettarlo.
Continuerò perché credo ci sia bisogno di questo lavoro. Di qualcuno che dica: aspetta, andiamo a vedere cosa è successo l’ultima volta. Di qualcuno che legga i documenti, conti i numeri, ricostruisca le genealogie. Forse non cambierà le cose nell’immediato, ma lascerà una traccia.
Un giorno, quando ci sarà (se, ci sarà) vorrà capire come siamo arrivati a questo punto, forse troverà quegli articoli e dirà: qualcuno aveva capito, qualcuno aveva documentato, qualcuno aveva provato a mettere in guardia. E forse quella traccia servirà. Non per impedire che la storia si ripeta – perché si ripete sempre – ma almeno perché quando si ripete qualcuno possa dire: è già successo, sappiamo come va a finire, possiamo fare diversamente.
È poco? Forse. Ma è meglio dell’amnesia collettiva, del finto stupore, dell’ipocrisia sistemica. È il minimo per chi crede che la memoria sia uno strumento politico, non solo un esercizio nostalgico.
Continuerò a scrivere di politica e dinamiche internazionali, di ipocrisie e amnesie, di copioni già scritti e teatrini prevedibili. Continuerò a cercare documenti, contare numeri, ricostruire genealogie. Continuerò a dire: no, non è la prima volta, no, non è inedito.
Continuerò, semplicemente, a ricordare. E a invitare chi legge a fare altrettanto. Perché senza memoria non c’è futuro. C’è solo un eterno presente dove tutto sembra nuovo e nulla ha conseguenze, dove ogni errore può essere ripetuto all’infinito perché nessuno si ricorda di averlo già fatto.
No, grazie. Preferisco ricordare. A futura memoria, come diceva quello. Aggiungendo subito dopo, amaramente, se la memoria ha un futuro.
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