Memoria e Futuro
Un Natale di pace
Mentre si moltiplicano le voci ottimistiche sui risultati dei negoziati di pace sull’aggressione russa in Ucraina e facciamo come ci fosse una situazione di tranquillità a Gaza, un pensiero inquietante si fa strada nella mia testa: quando questi due conflitti usciranno dalle prime pagine, torneremo a fare finta che nel mondo regni la pace? Perché, diciamocelo chiaramente, degli altri 54 conflitti attualmente in corso non frega un cavolo a nessuno. Non sono abbastanza “occidentali”, non coinvolgono abbastanza i nostri interessi, non hanno immagini abbastanza fotogeniche per i nostri talk show serali.
Le presunte paci di cui si parla per i due conflitti principali potrebbero presto far sparire la guerra dalle prime pagine dei giornali italiani. Ma il mondo continua a bruciare, con 56 conflitti armati attivi nel 2025, il numero più alto registrato dalla fine della Seconda Guerra Mondiale. Questi coinvolgono direttamente o indirettamente 92 Paesi e hanno causato oltre 200.000 morti nel solo 2024 (per quest’anno il conteggio è ancora in corso), con 117 milioni di sfollati. Cifre che dovrebbero far tremare la terra. Eppure, provate a chiedere a un italiano medio cosa sta succedendo in Sudan, Myanmar o nella Repubblica Democratica del Congo (che campeggia tra l’altro come sponsor sulle divise di una rinomata squadra del nostro campionato di serie A).
La guerra in Sudan tra le Forze Armate Sudanesi e le Forze di Supporto Rapido devasta milioni di vite. Il Myanmar conta quasi 200 gruppi armati in una guerra senza fine. In Africa, il Sahel, il Corno d’Africa e la regione dei Grandi Laghi sono devastati da conflitti jihadisti e violenze paramilitari. In Siria, dopo la caduta di Assad nel dicembre 2024, gli scontri a Sweida di luglio 2025 hanno fatto almeno 30 morti. In America Latina, Haiti, Venezuela e Messico vivono situazioni di estrema precarietà. Ma di tutto questo, sui nostri giornali, appena un trafiletto. Esclusa la meritoria attenzione di Avvenire e del Manifesto, ma si tratta di articoli dedicati a nicchie di lettori.
E mentre i riflettori erano puntati altrove, nel 2025 il mondo ha assistito a diversi colpi di Stato. A ottobre, in Madagascar, il Corpo d’amministrazione e dei servizi tecnici dell’esercito (CAPSAT) ha compiuto un colpo di Stato che ha portato alla fuga del Presidente Andry Rajoelina. Scatenato dalle proteste per la mancanza di acqua ed elettricità e dalla corruzione diffusa, il golpe ha portato all’insediamento di una giunta militare. L’Unione Africana ha sospeso il Madagascar, ma chi se ne è accorto? A dicembre 2025, in Benin, un gruppo di militari ha tentato di rovesciare un governo che aveva retto per cinquant’anni senza golpe. Il tentativo è stato sventato, ma è l’ennesimo segnale di un’ondata di instabilità che attraversa l’Africa occidentale nel totale disinteresse dell’opinione pubblica internazionale.
La democrazia sta morendo anche dove pensavamo fosse al sicuro o dove era pesantemente in bilico, soprattutto in Oriente. Domenica scorsa, il Partito Democratico di Hong Kong, il più antico partito pro-democrazia della regione, ha votato ufficialmente per il proprio scioglimento. Con 117 voti favorevoli su 121 membri, si è conclusa una storia iniziata nel 1994. Già a giugno si era sciolto un altro partito d’opposizione, la Lega dei Socialdemocratici, mentre il Partito Civico aveva cessato le attività nel 2023. La stretta di Pechino è totale: la legge sulla sicurezza nazionale del 2020 ha incarcerato cinque tra i membri più influenti del Partito Democratico, incluso l’ex leader Wu Chi-wai. La riforma elettorale del 2021 ha riservato i seggi parlamentari esclusivamente ai “patrioti” fedeli al Partito Comunista Cinese. Nelle elezioni del 7 dicembre 2025, tutti i 90 membri del Consiglio legislativo sono stati scelti tra candidati approvati dal governo, senza alcuna voce dissidente. L’obiettivo di Xi Jinping di riportare pienamente Hong Kong sotto controllo centrale è ormai compiuto. Silenziosamente.
Ma parliamo dei nostri alleati, tipo Erdogan. In Turchia, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu, principale oppositore del presidente Erdoğan e candidato alle presidenziali del 2028, è in carcere dal 19 marzo scorso con accuse di corruzione e legami con il PKK. Le accuse sono 142, con richieste di pena che arrivano a 2.352 anni di carcere. L’atto d’accusa, lungo circa 4.000 pagine, nomina 402 sospettati. Il processo principale inizierà solo il 9 marzo 2026: serve prima costruire un’aula di tribunale ad hoc nel carcere di Silivri per celebrare il maxiprocesso che ricorda tanto, per la precisione del lavoro svolto dalla magistratura inquirente, quello alla Camorra in cui fu implicato Enzo Tortora. Intanto İmamoğlu resta in cella, l’Università di Istanbul ha revocato la sua laurea, e un sindaco ad interim fedele al regime lo ha sostituito. Le proteste per il suo defenestramento hanno portato all’arresto di circa 2.000 manifestanti. L’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa ha chiesto il suo rilascio immediato, ma Erdoğan procede spedito nell’operazione di annientamento dell’opposizione, e l’Occidente si limita a timide dichiarazioni.
Ma ecco il dato più inquietante rivelato qualche giorno fa: il 72% della popolazione mondiale vive oggi sotto regimi autocratici o dittatoriali. Nel 2012 era il 46%. In soli dieci anni, la democrazia è crollata ovunque. Secondo il V-Dem Institute, per la prima volta in due decenni le autocrazie superano le democrazie. Solo il 7,8% della popolazione mondiale vive in “democrazie complete”. Il 39,4% vive sotto regimi apertamente autoritari, mentre quasi la metà della popolazione mondiale risiede in “autocrazie elettorali” – Paesi dove si vota, ma l’opposizione non ha alcuna possibilità di vittoria, come Ungheria, Russia e Turchia. L’indice Democracy Index dell’Economist mostra che il punteggio medio globale della democrazia è al livello più basso dal 2006.
Quindi, cosa succederà quando – e se – si raggiungeranno accordi di pace in Ucraina e Gaza? Torneremo a raccontarci che il mondo è un posto tranquillo? Che la democrazia ha trionfato? La verità è che continueremo a ignorare il Sudan e il Myanmar. Continueremo a far finta che Hong Kong non sia diventata un’estensione totale del controllo di Pechino. Continueremo a distogliere lo sguardo mentre in Turchia Erdoğan incarcera i suoi oppositori con processi farsa.
Perché, alla fine, la guerra fa notizia solo quando ci tocca abbastanza da vicino. Gli altri conflitti – quelli in Africa, in Asia, in America Latina – sono troppo lontani, troppo complicati, troppo “altri” per meritare la nostra attenzione. E mentre noi torniamo a dormire tranquilli, convinti che la pace sia tornata, 200.000 persone all’anno continueranno a morire in guerre di cui non conosciamo nemmeno l’esistenza. E il 72% dell’umanità continuerà a vivere sotto dittature e autocrazie, in un silenzio che è complice quanto le armi.
A Hong Kong non ci sarà più opposizione da festeggiare sotto le luci natalizie. A Istanbul, İmamoğlu passerà il Capodanno in cella aspettando un processo farsa. In Sudan, Myanmar, Madagascar, la pace sulla terra resterà solo una frase da cartolina.
Ma noi staremo bene. Avremo tolto Ucraina e Gaza dalle prime pagine, e potremo finalmente tornare a raccontarci la favola di un mondo in pace. Buon Natale. La democrazia sta morendo, ma questo, ne sono sicuro, non rovinerà a nessun italiano il pranzo del 25.
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