Memoria e Futuro
Un oceano di illusioni
L’elezione di Catherine Connolly alla presidenza dell’Irlanda e la probabile vittoria del socialista democratico Zohran Mamdani a sindaco di New York hanno acceso nuovamente l’entusiasmo della sinistra progressista internazionale (e italiana in particolare). Tuttavia, la storia recente ci insegna che l’ottimismo iniziale può facilmente trasformarsi in delusione. Basta guardare ai precedenti di Michael D. Higgins e Bill de Blasio per comprendere come le speranze riposte in figure carismatiche e progressiste si siano spesso infrante contro la dura realtà del potere.
Lo stupore per l’elezione di una presidente progressista in Irlanda appare ancora più sorprendente se si considera che il paese sta attraversando una crisi profonda di identità e tolleranza. Negli ultimi mesi, l’Irlanda è stata teatro di violente manifestazioni anti-immigrazione che hanno scosso l’immagine di nazione liberale e aperta che il paese aveva costruito. Ancora poche settimane fa, migliaia di manifestanti hanno dato fuoco a veicoli della polizia e lanciato bottiglie molotov contro agenti fuori da un hotel che ospitava richiedenti asilo a Dublino. Incendi dolosi contro strutture destinate ai rifugiati sono diventati frequenti, con oltre 10.000 persone che hanno marciato nell’aprile 2025 in una “protesta nazionale” anti-immigrazione. I sondaggi confermano questa deriva: il 59% degli irlandesi chiede oggi politiche migratorie più restrittive. Come si concilia questa realtà con l’elezione di una presidente di sinistra? La risposta sta nella natura essenzialmente cerimoniale della presidenza irlandese, che permette agli elettori di esprimere un voto “di coscienza” sapendo che il vero potere resta altrove.
Non è una novità. Nel 2011, l’elezione di Michael D. Higgins segnò una svolta nella politica irlandese. Poeta, sociologo e attivista per i diritti umani, Higgins incarnava l’intellettuale impegnato, il presidente che avrebbe dato voce alla cultura e all’uguaglianza sociale. La pubblicistica italiana celebrò con entusiasmo questa figura raffinata, vedendo in lui un modello di leadership illuminata che si sperava potesse ispirare anche la politica nostrana. Gli articoli si moltiplicavano, dipingendo l’Irlanda come un faro di civiltà progressista, capace di eleggere un poeta alla massima carica dello Stato. Finalmente, si diceva, un paese occidentale sceglieva la cultura contro il cinismo, l’umanesimo contro il populismo.
Eppure, dopo quattordici anni di presidenza Higgins, l’Irlanda rimane un paese profondamente segnato dalle diseguaglianze. La crisi abitativa è drammatica, con migliaia di famiglie che non riescono a trovare alloggi accessibili. Il costo della vita è schizzato alle stelle, trasformando Dublino in una delle capitali più care d’Europa. La presidenza – pur mantenendo un ruolo simbolico di grande dignità e rappresentando con eleganza il paese nei consessi internazionali – non ha certo rivoluzionato le dinamiche di potere. Il presidente poeta ha recitato versi mentre il sistema restava immutato, le multinazionali continuavano a godere di privilegi fiscali scandalosi e la classe lavoratrice irlandese arrancava sotto il peso di un’economia che premia i pochi a scapito dei molti. Per inciso, durante tutta la sua presidenza, il governo irlandese è sempre stato guidato da coalizioni di centrodestra. Non c’è mai stato un governo di sinistra.
Ancora più emblematico è il caso di Bill de Blasio. Nel 2013, la sua elezione a sindaco di New York fu salutata come una rivoluzione progressista. Con radici italiane che lo legavano a Sant’Agata dei Goti e Grassano, de Blasio prometteva di colmare il divario tra la “città dei ricchi” e quella dei poveri, la famosa “Tale of Two Cities” che aveva ispirato la sua campagna elettorale. I sindaci italiani gli inviarono congratulazioni entusiaste, vedendo in lui un ponte culturale e un esempio di politiche sociali illuminate. La stampa progressista italiana si lanciò in elogi sperticati, immaginando che il nipote di immigrati italiani potesse finalmente portare giustizia sociale nella capitale mondiale del capitalismo.
La realtà si rivelò ben diversa. Il suo mandato lasciò New York sull’orlo della bancarotta, con un debito medio di 81.000 dollari per famiglia. Le spese pubbliche lievitarono senza controllo, creando un buco di bilancio da 9,7 miliardi di dollari che il suo successore ha dovuto faticosamente colmare. La gestione della pandemia fu caotica e contraddittoria, con chiusure improvvise alternate a riaperture premature. Le tensioni con la polizia esplosero dopo il caso George Floyd, con de Blasio che tentò disperatamente di barcamenarsi tra le richieste dei movimenti progressisti e la necessità di mantenere l’ordine pubblico, finendo per scontentare tutti. Molti dei suoi stessi sostenitori gli voltarono le spalle, accusandolo di inefficienza e di vivere in una bolla ideologica distante dai problemi reali dei newyorkesi. Quando tentò la corsa presidenziale nel 2020, i sondaggi lo bocciarono sonoramente, costringendolo a ritirarsi dopo pochi mesi con un consenso nazionale irrilevante.
Oggi assistiamo a un inquietante déjà-vu. Catherine Connolly, con il suo 63% di consensi, viene celebrata come la voce della sinistra indipendente che darà nuova linfa alla repubblica irlandese. Zohran Mamdani, trentaquattrenne socialista democratico che ha trionfato nelle primarie democratiche di New York e si appresta a vincere con uno scarto notevole anche la corsa a sindaco della Grande Mela con promesse audaci di affitti congelati, negozi pubblici e tasse aggressive sui ricchi, viene presentato come il volto nuovo della politica americana, capace di rompere con il pragmatismo cinico dei democratici moderati.
La pubblicistica italiana di area progressista non perde tempo e, ancora una volta, si lancia in insperati appoggi. Si moltiplicano gli articoli che vedono in queste vittorie un segnale positivo per le sinistre europee, una speranza che dall’Atlantico possa giungere un’ispirazione anche per il nostro paese, afflitto da una crisi di leadership progressista e da una sinistra incapace di proporre alternative credibili. Si cerca disperatamente all’estero ciò che non si riesce a costruire in casa: una figura carismatica, un programma radicale, una visione capace di entusiasmare l’elettorato progressista deluso.
Il problema è che l’entusiasmo oscura l’analisi. Connolly, per quanto stimabile, avrà un ruolo essenzialmente cerimoniale in un sistema presidenziale irlandese che concentra il potere reale nelle mani del Taoiseach (primo ministro) e del governo. Le sue battaglie per i diritti civili e sociali si scontreranno con i vincoli costituzionali della presidenza. Mamdani, pur vincendo le elezioni generali di novembre contro avversari non certo formidabili come Andrew Cuomo, dovrà confrontarsi con una città in crisi economica post-pandemica, un consiglio comunale diffidente verso le proposte più radicali e uno Stato di New York governato da forze ostili alle sue idee socialiste. Per non parlare del presidente che già gli dà del bamboccio comunista.
Le sue promesse più audaci – dal salario minimo a 30 dollari l’ora ai negozi comunali di beni di prima necessità – rischiano di schiantarsi contro la dura realtà della governance urbana. I grandi gruppi immobiliari e finanziari già minacciano di abbandonare la città, proprio come accadde durante l’era de Blasio quando molte imprese trasferirono le loro sedi in altri stati. La fuga dei capitali potrebbe trasformare le sue riforme progressiste in un disastro economico.
La lezione per l’Italia è chiara e amara: non esistono salvatori che arrivano dall’estero. Il nostro paese continua a cercare fuori dai propri confini modelli e ispirazioni perché manca di una classe dirigente all’altezza. Invece di celebrare acriticamente ogni vittoria progressista oltreoceano, sarebbe più onesto ammettere che l’Italia non ha prodotto candidati credibili capaci di coniugare idealismo e pragmatismo, visione e competenza amministrativa.
Higgins e de Blasio lo hanno dimostrato con brutale chiarezza: le buone intenzioni non bastano, la poesia non governa, e le promesse di cambiamento radicale si infrangono sistematicamente contro la complessità del governo reale. È tempo di guardare con maggiore scetticismo a questi entusiasmi internazionali e concentrarsi finalmente sulla costruzione di una leadership autenticamente italiana, formata e preparata, invece di sognare rivoluzioni che arrivano dall’oceano.
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