Memoria e Futuro
Vita da Medvedev
C’è un mestiere ingrato nel panorama politico mondiale, una professione che richiede nervi d’acciaio, ego compresso e una straordinaria capacità di sorridere mentre ti spiegano che no, quella poltrona importante non è per te. È il ruolo del vice del dittatore, dell’eterno secondo, del “quasi-ma-non-proprio”. E se c’è qualcuno che ha elevato questa condizione a forma d’arte, quello è Dmitrij Medvedev.
Immaginate la scena: sei presidente della Russia, ti siedi sulla sedia più importante del Cremlino, firmi decreti, stringi mani a leader stranieri. Ti senti potente, realizzato. Poi squilla il telefono. È Vladimir. Ti ricorda gentilmente che domani devi liberare la scrivania perché lui torna. Ah, e puoi tenere la penna, quella con lo stemma presidenziale. Come souvenir.
Medvedev ha vissuto questo incubo a occhi aperti tra il 2008 e il 2012, quando ha fatto da segnaposto presidenziale mentre Putin, costituzionalmente impossibilitato a un terzo mandato consecutivo, si accomodava come primo ministro. Un teatrino costituzionale dove tutti sapevano chi comandava davvero, tranne forse il diretto interessato che, per quattro anni, ha potuto illudersi di contare qualcosa.
Ma il vero capolavoro di Medvedev è venuto dopo, quando ha accettato di tornare nell’ombra senza fare scenate. Niente colpi di stato, niente fughe all’estero con i documenti compromettenti, niente interviste al New York Times. Solo un dignitoso ritorno al ruolo di vice, con una missione precisa: dire ad alta voce quello che Putin pensa ma non può permettersi di dichiarare. E quando invece Putin si lancia in una serie di insulti, come ieri, la reazione della stampa internazionale è: ma che gli prende, sembra Medvedev!
L’eterno secondo è, di fatto, in questa pantomima, il “cattivo poliziotto”. Mentre Putin mantiene un’aura di statista sobrio (per quanto possibile per chi invade paesi vicini), Medvedev è stato liberato dal guinzaglio diplomatico. Il risultato? Una collezione impressionante di dichiarazioni sempre più sopra le righe contro l’Occidente, minacce nucleari servite come aperitivi, profezie apocalittiche lanciate su Telegram come se fossero meme. E tutte, finora, senza conseguenze pratiche.
È la sindrome dell’eterno secondo che cerca disperatamente di dimostrare il proprio valore alzando i toni. “Guardate, sono importante anch’io! Posso minacciare l’Europa! Posso parlare di atomiche!” È come quel ragazzo al liceo che non veniva invitato alle feste e compensava raccontando bugie sempre più assurde sui suoi weekend fantastici.
Ma Medvedev non è solo in questo club esclusivo degli eterni secondi. La storia è piena di vice che hanno vissuto nell’ombra di figure autoritarie, consolandosi con briciole di potere.
Prendiamo Rudolf Hess, il vice di Hitler. Per anni si è illuso di essere indispensabile, il secondo nel Reich millenario. Poi, in un momento di follia o lucidità (difficile dire), nel 1941 decise di volare in Scozia per negoziare la pace. Risultato? Hitler lo dichiarò pazzo, gli inglesi lo imprigionarono, e lui passò il resto della vita a essere l’unico detenuto del carcere di Spandau. L’eterno secondo che tentò una mossa da primo e finì ultimo.
O che dire di Lin Biao, il designato successore di Mao Zedong? Ministro della Difesa, eroe della Rivoluzione, autore del celebre “Libretto Rosso”. Sembrava aver fatto tutto giusto per ereditare il trono. Ma nel 1971, secondo la versione ufficiale, tentò un colpo di stato, fallì, e morì in un misterioso incidente aereo mentre fuggiva verso l’Unione Sovietica. La lezione? Essere il vice di un dittatore è come giocare al gioco delle sedie musicali, ma quando la musica si ferma, la sedia su cui devi sederti potrebbe avere le punte.
E poi c’è Raúl Castro, forse l’unico eterno secondo ad aver avuto un finale felice. Dopo decenni passati all’ombra del fratello Fidel, ha finalmente ottenuto la presidenza di Cuba. Certo, aveva ottant’anni e il paese era in condizioni pietose, ma almeno ce l’ha fatta. Una specie di happy ending geriatrico.
Il punto è che essere l’eterno secondo in un regime autoritario è una condanna esistenziale. Non puoi essere troppo brillante o eclissi il leader. Non puoi essere troppo mediocre o diventi inutile. Devi camminare su un filo sottilissimo, sempre a un passo dal precipizio, chiedendoti se la poltrona del vice vale davvero questa umiliazione quotidiana.
Medvedev ha scelto la sua strategia: l’aggressività compensatoria. Ogni tweet bellicoso, ogni minaccia iperbolica è un grido nell’oscurità: “Esisto! Conto! Ascoltatemi!” Ma il mondo lo guarda con una miscela di pietà e fastidio, come si osserva un cane che abbaia furiosamente dietro un cancello, consapevole che quel cancello non si aprirà mai.
Forse ogni tanto, nelle notti moscovite, Medvedev ripensa a quei quattro anni da presidente e si chiede: “E se avessi avuto il coraggio di non restituire la poltrona?” Ma poi si ricorda cosa succede agli eterni secondi che provano a diventare primi, e torna a twittare le sue minacce, confortato dal fatto che almeno non sta volando verso la Siberia su un aereo malfunzionante.
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