PERCHé OLTRAGGIAMO I CORPI
Siamo strani animali noi umani, attaccati a ripetitivi rituali conservativi che hanno la precisa funzione di proteggere la specie ma anche, nella vasta coloritura delle proprie espressioni, essi esprimono, sul piano dell’inconscio collettivo, l’illusorio desiderio di poter governare il divenire della storia, di poterla forgiare a propria misura, in qualche modo di poterla quasi destoricizzare a proprio uso e consumo.
Interessante in questo senso è osservare la relazione che si traccia tra il popolo, cioé tutti noi, e i potenti, in relazione alla dimensione psicologica riferita al corpo, quando quest’ultimo viene abbandonato dalla vita. Quando il potente se ne va per vie naturali, in genere ancora nel pieno delle sue funzioni, il suo corpo diventa motivo e luogo di culto in una sorta di reliquiario carico di sacralità che dura finchè la memoria dei contemporanei lo trattiene; se invece il potente si era già, pacificamente, allontanato dal comando , il suo corpo viene in tempo breve, perlopiù rimosso, dimenticato, collocato nell’oblio delle generazioni presenti e future.
Quando invece il potente viene spodestato attraverso atti rivoluzionari quasi sempre carichi di violenza, allora i vincitori lo debbono oltraggiare, attraverso azioni massacratorie, in modo da renderlo quasi irriconoscibile. Il rito per essere efficace ha da essere compiuto in uno spazio aperto, una pubblica agorà dove il maggior numero possibile di persone possa assistere allo scempio.
Ovviamente ogni epoca ha le sue piazze così si è passati dal racconto dei massacri (Omero ad esempio piuttosto che il Tito Andronico di William Shakespeare), alla piazza vera e propria. Per esemplificare si possono ricordare a Parigi Place de la Concorde che durante il periodo rivoluzionario si chiamava Place de la decapitation o per rimanere a noi più vicini, piazza Loreto a Milano per Mussolini e alcuni suoi seguaci.
Ora che viviamo nell’era dei media, la piazza è diventata lo schermo televisivo o la fotografia sulla pagina del giornale. Gli esempi più recenti sono quelli di Ceausescu, di Ghedaffi, i cui corpi sono stati mostrati da tutti i network, oltraggiati, percossi, sfigurati quasi a renderli irriconoscibili. Cancellando i corpi, infierendo soprattutto sui visi, i vissuti collettivi accolgono inconsciamente l’assunto che possa sparire il soggetto, la memoria del soggetto e forse anche dei suoi misfatti. Il rito assume una connotazione tribale che assomiglia a quelle poste in essere da popolazioni primitive quando ricorrono al cannibalismo nella speranza che l’incorporazione del nemico lo annulli per sempre e che la sua forza venga assunta dai vincitori.
Lasciando i potenti ai loro destini e tornando a noi normali, curiosità credo debba suscitare l’osservazione di alcune serie televisive che passano nei canali che si occupano di crimine. Esistono dei canovacci predefiniti cui si attengono gli sceneggiatori: la coppia di poliziotti, che negli anni ’70 e ’80 era rigorosamente al maschile per poi diventare dagli anni ’90 ad oggi mista, a volte anche con la presenza di partner gay; il criminologo di turno che cerca le antiche valenze traumatiche che si porta dentro il serial-killer ecc. ecc.
A metà degli anni ’70 fa la comparsa nei telefilm un certo Quincy che faceva l’anatomopatologo. Nelle ultime serie televisive, questa figura ha assunto un ruolo sempre più importante (tra l’altro vale la pena di notare che quasi sempre il personaggio è una donna). Quindi ci ritroviamo queste belle medichesse che tagliano, sezionano, cuciono e ricuciono corpi interi o tengono sottobraccio parti di essi, con la macchina da presa che compiaciuta indugia su primi piani macabri e granghignoleschi.
Ho sottolineato la scelta di far interpretare il ruolo a personaggi femminili in quanto credo che oltre al politically correct sia presente un elemento profondo: donne non più madri, cioè tese alla cura del corpo, bensì donne che simbolicamente diventano carnefici legalizzate, quasi sempre compiaciute nell’affondare, pur se per ragioni etiche, le mani nel macabro cadavere.
Per molti anni ho pensato che la rappresentazione della violenza, proposta da immagini di fantasia, servisse ad anestetizzare il bisogno di violenza, come a dire che se la piazza delle esecuzioni è uno schermo, forse ciò ci protegge dal vederle sulle piazze vere. Mi è capitato di difendere questa tesi anche in dibattiti pubblici. Ammetto di essermi sbagliato perché siamo finiti a vedere i corpi oltraggiati, massacrati ridotti a pezzi, sia sugli schermi che nelle vie delle nostre città piuttosto che sulle dune di qualche deserto orientale. Su questi assunti si fonda, a mio parere, la delirante esibizione delle uccisioni perpetrate dall’Isis: perfetta sintesi di di piazza reale e di piazza virtuale (le riprese che immediatamente vengono fatte circolare in rete).
Sembra che non ci sia proprio niente da fare, che la storia non riesca lasciare insegnamenti che durino nel tempo. Alla fine il bisogno profondo di accanirsi sul corpo del nemico riaffiora sempre e quando non trova ostacoli nella ragione rischia di diventare un fiume in piena che porta con sé gli stermini e le soluzioni finali.
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