Giornalismo
Caro Aldo Grasso, l’algoritmo non c’entra con la fine del mito della Silicon Valley
Non è il calcolo a spegnere il pensiero, ma il nostro abbandono. Il contenuto si è svuotato perché abbiamo accettato di non avere più nulla da dire.
Aldo Grasso ha scritto, sul Corriere della Sera, un paio di giorni fa, che il mito della Silicon Valley è finito. Ha raccontato la parabola: dagli hippie ai garage, dal sogno libertario all’iPhone, fino all’arrivo degli algoritmi – freddi, impersonali, capaci di svuotare il contenuto, trasformandolo in clic, in traffico, in profitto. Secondo lui è l’algoritmo a uccidere il pensiero, a tradire quella promessa originaria di libertà e invenzione. Ma io non sono d’accordo. L’algoritmo non è il colpevole. È la prova. Il sintomo di un mondo che ha smesso di desiderare. La Silicon Valley non è morta perché sono arrivati gli algoritmi. È morta perché ha smesso di credere nell’umano. L’algoritmo non ha distrutto il contenuto: ha semplicemente amplificato ciò che gli abbiamo chiesto. L’algoritmo risponde. Ma chi interroga? La sua funzione non è quella del demiurgo, ma del servo obbediente. È una macchina che ottimizza. Che seleziona. Che ripete. Non pensa, non sceglie, non ama. Non disprezza. L’algoritmo siamo noi quando rinunciamo al conflitto, alla lentezza, alla parola che non serve a niente se non a resistere. Grasso dice che il contenuto oggi serve solo a generare traffico. Ma il traffico è una domanda. È la folla che grida: “Dammi qualcosa che mi somigli!” E l’algoritmo glielo dà. Sempre uguale. Sempre più prevedibile. E allora il punto non è l’algoritmo. È l’abdicazione. È che abbiamo preferito la profilazione alla scoperta. L’interazione alla relazione. L’ottimizzazione alla verità. Il contenuto, oggi, non nasce da un’urgenza. Nasce da un calcolo. Da un tempo ottimizzato. Da un grafico. È un contenuto che non crede in nulla, se non nella sua ripetibilità. Un contenuto muto, che non disturba. Che si fa piacere. Che non scava. Ma non è l’algoritmo a volerlo. L’algoritmo non ha volontà. Siamo noi ad aver smesso di scrivere per perdere. Per inciampare. Per restare soli con un pensiero che non genera traffico. Allora la vera fine non è quella di un mito tecnologico. È la fine di un’umanità che accetta di essere guidata da un calcolo invece che da una ferita. L’algoritmo, in fondo, è ciò che rimane quando smettiamo di avere parole che fanno male. E se oggi qualcuno scrive ancora come se fosse l’ultima volta, allora non tutto è stato silenziato. Ma chi scrive, oggi, è disposto a non essere letto?
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