Roma
Il diabete nel Lazio, la realtà senza filtri
Il rapporto di Federdiabete racconta un sistema tra eccellenze, vuoti e la promessa di una svolta condivisa
ROMA. Quello che succede nella Sala Tevere, quel 10 dicembre, somiglia meno a una presentazione e più a un grande racconto collettivo. La Regione Lazio fa da cornice, ma al centro ci sono le persone: c’è chi convive con il diabete ogni giorno, chi lavora nei centri, chi osserva da anni cosa funziona e cosa invece resta sospeso e può (o deve) essere migliorato. Federdiabete Lazio ha presentato il suo rapporto: non è un elenco di difetti, non è un dito puntato. Semmai l’indicazione di una strada da intraprendere. È una fotografia scattata camminando attraverso trentatré centri, entrando negli ambulatori, parlando con chi ci lavora e con chi ci entra portandosi dietro una malattia cronica.
In questa fotografia di centri e ambulatori, colpisce un contrasto netto: le tecnologie ci sono, sono avanzate, spesso all’altezza delle migliori strutture nazionali. Anche l’assenza forte è, però, ben evidente; dice che lo psicologo dedicato alle persone non c’è: questo dato, nei racconti delle persone torna con la costanza di un’eco. Ci sono macchinari intelligenti ma manca quello sguardo umano che insegna a convivere con una diagnosi che non va mai in ferie e che ti cambia la vita, in ogni aspetto della quotidianità. E poi evidenzia le differenze territoriali, così lampanti da sembrare quasi ingiuste: tre ASL su dieci offrono un percorso adeguato sul piede diabetico, le altre no; alcuni pazienti pagano zero per un rinnovo patente, altri cinquanta.
Un continuo saliscendi che non dovrebbe esistere in un sistema sanitario che si dice unico e universale. E allora Lina Delle Monache, Presidente di FederDiabete Lazio, lo dice con calma, senza accusare nessuno: non può essere il codice di avviamento postale a decidere la qualità della cura.
La cosa interessante, però, è che dall’altra parte del tavolo non c’è chiusura. C’è ascolto, c’è voglia di capire come aggiustare gli ingranaggi.
Il Presidente del Consiglio Regionale del Lazio Antonello Aurigemma , ricorda che la prevenzione non è una spesa, ma un risparmio enorme nel lungo periodo. De Lillo (suo il ruolo di coordinatore del rapporto tra Regione, medici e associazioni), parla con la concretezza di chi è abituato ai tavoli complicati: se ci sono cento cose da fare e trenta mancano, si parte da quelle, senza pretese di perfezione immediata. Non sembra politica, sembra buon senso messo al servizio di un problema collettivo.
E dentro questo clima di confronto entrano le voci del territorio, che rendono tutto più reale. C’è chi arriva da Rieti e racconta che le distanze non sono un dettaglio, che senza telemedicina e senza le Case di Comunità certe persone restano tagliate fuori. C’è chi lavora con i bambini e vede genitori che vorrebbero più supporto, più spazi accoglienti, più tempo. C’è chi conosce i pazienti per nome e sa che un infermiere dedicato non è un lusso ma la condizione minima per gestire la cronicità. E poi ci sono le società scientifiche che, per una volta, non parlano un linguaggio diverso: riconoscono il valore di questa valutazione partecipata e la trattano come un manuale utile, un punto di partenza per costruire percorsi migliori.
Mentre le voci si intrecciano, il futuro bussa piano ma con decisione.
Agenas lavora a un PDTA nazionale più solido, più uniforme, più misurabile. E la piattaforma che ha raccolto i dati sta trasformando mille impressioni sparse in un quadro leggibile, quasi fosse un traduttore simultaneo delle esperienze sul campo. Non darà la soluzione a tutto, ma è comunque un passo per uscire dalla nebbia.
C’è un senso di avvio, finalmente, come quando si mette il primo mattone, anche sapendo che il muro sarà lungo da costruire.
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