Economia circolare
Il Giappone e l’arte del denim
Dal Giappone arriva una lezione che va oltre la moda: il denim di Kojima come paradigma di resistenza culturale ed economica all’omologazione del fast fashion.
Okayama, quartiere di Kojima.
Qui il rumore dei telai è un suono di memoria.
Negli anni Sessanta, mentre l’industria americana inseguiva la produzione di massa, alcuni artigiani decisero di rallentare.
Recuperarono i vecchi telai a navetta, gli shuttle looms che le fabbriche statunitensi stavano dismettendo, usarono come tintura l’indaco naturale e trasformarono un capo operaio in un oggetto di culto.
Questo è il denim giapponese, nato come gesto di fedeltà a una tradizione ma anche come forma di resistenza all’accelerazione industriale.
Il primo jeans interamente giapponese porta la firma Big John: erano gli anni Settanta e nasceva un mito fatto di trama densa, cuciture colorate e straordinaria morbidezza.
A Kojima il valore non è nella velocità, ma nella precisione del tempo dedicato.
Ogni capo è pensato per durare, per trasformarsi con chi lo indossa.
È un’estetica della lentezza che richiama la filosofia del wabi-sabi: la bellezza dell’imperfezione e del consumo naturale.
In un’economia globale che misura il successo in numeri e rapidità, Kojima rappresenta un’anomalia virtuosa.
Il suo modello produttivo, sostenibile e artigiano, è diventato un riferimento internazionale, corteggiato dai marchi del lusso e dai collezionisti di tutto il mondo.
Il denim di Kojima è un equilibrio tra industria e cultura, tra globalizzazione e identità locale.
In Italia, l’81% dei rifiuti tessili finisce ancora in discarica o in inceneritore.
Lì dove noi bruciamo, i giapponesi tacciono e riparano: filano il tempo come materia.
Forse la loro lentezza non è nostalgia, ma un modo diverso di guardare il futuro.
E in un mondo che consuma 92 milioni di tonnellate di tessuti all’anno, quel filo d’indaco potrebbe essere l’unico filo logico rimasto.
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