Letteratura

Il mondo di Ingeborg Bachmann

Una riflessione sulla raccolta di scritti “A occhi aperti” della poetessa e scrittrice austriaca.

8 Ottobre 2025

«Esisto solo quando scrivo, non sono nulla se non scrivo, sono estranea a me stessa, fuori di me se non scrivo» diceva Ingeborg Bachmann, poetessa e scrittrice austriaca nata nel 1926 e morta nel 1973 in circostanze drammatiche e mai del tutto chiarite, nella sua casa di Roma. Una frase che non venne pronunciata per fare colpo su qualcuno, non era nel suo stile, bensì detta con la consapevolezza che la scrittura non è né passatempo, né forma di egocentrismo.

Nel saggio “L’uomo deve affrontare la verità” contenuto nella raccolta di scritti intitolata A occhi aperti, a cura di Barbara Agnese, edita quest’anno da Adelphi, troviamo dichiarato:

«Compito dello scrittore non può essere quello di negare il dolore. Al contrario deve riconoscerlo e poi ancora restituirlo in quanto reale, in modo che noi possiamo vederlo».

Scopo della letteratura e dell’arte è togliere il velo, senza paure o ipocrisie. Bachmann non scriveva per compiacere, per avere l’approvazione altrui, quanto piuttosto per rispetto nei confronti delle parole.

In Letteratura come utopia, testo utile per comprendere come considerava la letteratura, ovvero “Un’etica del pensiero” (Adelphi, 1993) esprime la sua verità:

«Ogni scrittura è apocrifa» perché chi scrive si esercita su una lingua utilizzata da altri e così facendo se ne abbevera. Un processo dunque circolare e inevitabile.

Negli anni della sua poliedrica attività, iniziata con i versi e conclusa con la prosa (passaggio tra l’altro affrontato dalla critica in vari studi) gli interventi, anche radiofonici, sono stati numerosi.
In linea col pensiero del filosofo del linguaggio, il connazionale Ludwig Wittgenstein, Bachmann riconosce che il mondo è ciò che può essere detto, ma è proprio nell’attrito con l’indicibile che la scrittura trova il suo slancio più radicale. Non c’è spazio per le questioni metafisiche o morali; nulla può la filosofia. Tale limitazione del dicibile a ciò che può essere dimostrato porta a un vuoto che non è più solo linguistico ma, per Bachmann, esistenziale. Ed è nel desiderio di superare questo ostacolo che si esplicita la sua personale visione, evocata nel titolo A occhi aperti. Non solo vi si trovano racchiusi diversi contributi su ciò che più la premeva – autori, tematiche, ma rivelano il suo animo di artista. Nell’articolo sul già citato Wittgenstein di cui aveva svolto la tesi di dottorato, vi è un’articolata disamina sugli enunciati sensati e insensati del linguaggio comune. Come ricorda Barbara Agnese nella postfazione: «L’intero percorso intellettuale di Bachmann è stato improntato all’etica del sospetto verso le frasi fatte». Ci sono inoltre e tra altri, pezzi su Thomas Bernhard, Witold Gombrowicz, Kafka, Giuseppe Ungaretti, Sylvia Plath, nonché uno splendido omaggio a Maria Callas: «Una che sa per certo cos’è un’espressione»; non poteva mancare il Gruppo 47, movimento culturale nato a Monaco di Baviera all’indomani della Seconda guerra mondiale con l’intento di risollevare le sorti della Germania e rigettare l’assunto della “colpa collettiva”, formato dalla migliore intellighenzia tedesca (oltre a lei, entrata nel 1952, ne hanno fatto parte per esempio, Paul Celan, Heinrich Böll, Günter Grass, Peter Handke, tuttora vivente). Presente altresì il profondo legame, per lei imprescindibile, fra poesia e musica. Entrambe appartengono cioè a un linguaggio universale e si appartengono l’una all’altra.

Sempre rigorosa e tersa Ingeborg Bachmann. «Ho sentito che nel mondo si ha più tempo che senno, ma anche che gli occhi ci sono dati per vedere» scrive a conclusione del racconto sull’esperienza di vita a Roma, inserito anch’esso nel libro. Città amata e osservata, fino all’ultimo, nella sua dignità, nella più intima essenza.

 

 

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