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La manifestazione di Piazza del Popolo del 15 marzo per l'unità politica dell'Europa

Partiti e politici

La piazza di un piccolo popolo diviso e fuori dal mondo. A destra intanto il potere unisce, nonostante tutto

di Jacopo Tondelli
17 Marzo 2025

Sarebbe facile ironizzare sulla manifestazione europeista di sabato 15 marzo, convocata in Piazza del Popolo a Roma da Michele Serra, che ha raccolto attorno a sè qualche decina di migliaia di cittadini italiani, per lo più tra la mezza e la terza età, abbastanza visibilmente appartenenti al ceto urbano e buon borghese che, tipicamente, costiutisce l’asse portante del voto dei partiti di centrosinistra. Sarebbe facile ironizzare, dicevamo, soprattutto avendo letto e ascoltato la seriosità con la quale alcuni di quanti rivendicano di appartenere a quel popolo, e magari di ispirarlo, han parlato dal palco e sui media. Ma sarebbe un’occasione persa, che peraltro è già stata pienamente colta da giornali e opinionisti di vari colori, perchè dopo le risate – ammesso di riuscire a suscitarne – resta sempre poco. Mentre quella piccola manifestazione, per quando avviene, per come avviene, per il contesto temporale e politico nella quale si svolge, merita di essere analizzata, essendo rivelatoria e paragdigmatica di diversi elementi politici.

Cominciamo, come doveroso, dalle proporzioni. Prendiamo per buoni i numeri dell’organizzazione che ha contato 50 mila persone, un numero che sembra coerente con le dimensioni di Piazza del Popolo. Pensate a quanta gente va a vedere partite irrilevanti per la classifica delle squadre in campo. O pensate alle centinaia di migliaia di persone che partecipano a una manifestazione tecnicamente non-politica, ma sicuramente identitaria, come il gay-pride. O a quante più persone, ogni anno, nonostante l’evidente crisi dei valori e della pratica anti-fascista, partecipano alla manifestazione del 25 Aprile. I 50 mila di sabato scorso sono e restano pochi, nonostante siano molto celebrati e raccontati e fotografati dall’alto per far vedere quanto piena fosse una piazza da sempre considerata adatta a manifestazioni di nicchia. Oggi portare la gente in Piazza, lo sappiamo, è complicato, perchè si è perduto il senso e diremmo perfino anche l’abitudine a fare quel gesto, e infatti in termini relativi si può sicuramente parlare di un buon successo per una manifestazione di niccchia. E tuttavia, in termini assoluti, parliamo di poca roba, il che probabilmente ha anche molto a che fare sia col messaggio che con il medium da cui è partito.

Il messaggio, appunto. Una volta si sarebbe detta: “la piattaforma”. Qual era la piattaforma della manifestazione? Basta una breve ricerca, per capire che era essenzialmente tutta contenuta nelle idee espresse da Michele Serra prima su Il Post e poi su Repubblica. È possibile sintetizzare le ragioni della convocazione di quella piazza in una domanda: “Che svolta sostanziale sarebbe, se il primo punto del programma e dell’azione politica di tutte le forze progressiste europee fosse l’unità politica dell’Europa?”. Che svolta sarebbe, si chiede Serra. E tuttavia, la domanda non è retorica. L’unità politica dell’Europa, cioè in fondo l’approdo agli Stati Uniti d’Europa come vero terminale del lungo e accidentato processo di integrazione iniziato molti decenni fa, è una specie di araba fenice, o meglio di eterno Godot della storia europea recente. Una formula retorica mai tramontata perchè mai davvero sorta, nella quale con sempre meno convinzione e sempre meno successo si rifugiano forze politiche sempre più marginali nello scenario nazionale italiano e non solo. Si può dire: non è una buona ragione per non crederci. Già. Ma crederci davvero significa e implica di lavorare perchè quel consenso popolare – quello nel progetto europeo – torni a crescere. Se non a essere maggioritario, quantomeno a coagulare attorno a sè una minoranza attiva, cosciente e “politica” delle società europee. Altrimenti, mettere al centro del proprio programma l’unità politica europea finirebbe con l’essere per le già malconce forze progressiste un gesto suicida. E lo sarebbe senz’altro oggi, e vediamo a un altro punto di riflessione assai rilevante, che l’Europa come unione politica, ha assume una fisionomia e una proposta molto concreta, nel piano di riarmo proposto da Ursula Von Der Layen.

Già, perché che piaccia o meno – e davvero: può piacere o no – l’Europa più unita di cui si parla oggi non può prescindere da una proposta precisa, concreta, non contingente bensì strategica, di una volontà di riarmo, e di una centralità dell’investimento bellico e militare sul futuro del continente, e sui bilanci di ogni paese membro. I promotori della Piazza hanno voluto sottolineare che la loro non era una piazza “bellicista” e pro-Rearm, ed erano sicuramente sinceri. E tuttavia, come si può davvero scindere l’idea di sostenere una maggiore unità politica dell’Unione da questa precisa linea politica, espressa dal massimo organo di governo dell’Unione, cioè dalla Commissione che rappresenta il potere esecutivo della stessa? Una domanda rimasta sostanzialmente inevasa, per consentire a Piazza del Popolo di accogliere anime molto diverse: pacifisti integrali, scettici rispetto al riarmo come la segretaria del Pd Schlein, entusiasti del riarmo, e indifferenti a tutto, ma amanti della bandiera blu con le stelle.

Come si vede, la questione è tutta politica, e più grande della piazza di pochi giorni fa. Come fanno “le forze progressiste” a mettere al centro dei loro programmi l’unione politica d’Europa, se sono radicalmente divise sulla fisionomia profonda che l’Europa vuole darsi adesso e nel prossimo futuro, chiedendo peraltro ai suoi membri di dirottare risorse pubbliche verso progetti e dispositivi di difesa, sottraendole evidentemente ad altri capitoli di spesa pubblica? Si può chiedere “più Europa”, mentre quella che c’è propone qualcosa alla quale intimamente non si crede, e chiede un impegno oneroso da tutti i punti di vista, incluso quello etico, per gli anni a venire? E lo si può fare mentre trasversalmente la cittadinanza italiana mostra, forse più di ogni altra cittadinanza europea, scetticismo e dubbi su piani di riarmo di lungo periodo, e sul sostegno all’Ucraina, nel presente?

È difficile rifugiarsi nell’idea che il processo conti più del progetto, di fronte a questioni di questa portata. Lo fa Schlein quando presidia quella piazza per paura che qualcuno dica che sul riarmo ha le stesse perplessità di Salvini e Meloni, o per paura che Repubblica la critichi, scoprendo il fianco a Conte che la piazza la diserta “perché ci sono o favorevoli al riarmo”. La sostanza della questione resta, e viene illuminata con chiarezza da quel che succede nel centrodestra: anche di là, sul riarmo e sull’Europa le posizioni sono tante quante i partiti che compongono la coalizione. Ma il collante del potere e una leadership riconosciuta, quella di Meloni, consente alla fine di ricomporre un quadro di sintesi e unità, anche a fronte di una somiglianza sostanziale tra i popoli che compongono gli elettorati di centrodestra, cosa che non si può dire del frastagliato “campo largo” di centrosinistra.

Tutto attorno, fuori dalla politica dei partiti, continua infine a esserci un paese, una società, coi suoi dubbi, le sue idee, i suoi valori e le sue convinzioni. È lì che matura il fondamento delle decisioni nei paesi democratici, ovverosia il consenso collettivo. Le piazze, un tempo, erano il luogo nel quale le idee si incontravano, si difendevano, circolavano e contagiavano. Nel tempo che viviamo possono forse tornare a esserlo, oppure diventare luogo di fortezze identitarie sempre più isolate dal resto del mondo. È del tutto legittimo, può anche essere corroborante e salutare per chi partecipa: l’importante, come sempre, è conoscere le regole del gioco, e gli obiettivi che realisticamente si possono perseguire.

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