
Geopolitica
L’India che ci liberò e ci nutre: il debito dimenticato dell’Italia
Il filo che lega India e Italia non si è interrotto nel 1945. Al contrario, è cresciuto in forme nuove. Oggi la comunità indiana in Italia è una delle più numerose e radicate.
Il 15 agosto di quest’anno l’India ha celebrato il 79° anniversario della sua indipendenza dall’Impero britannico. A Nuova Delhi, come ogni anno, le celebrazioni hanno illuminato l’alba con i colori dell’arancione, del bianco e del verde. In Italia, invece, l’evento è passato sotto silenzio. Nessun accenno nelle istituzioni, nessuna riflessione nei grandi giornali, nessuna memoria condivisa di un legame che invece è profondo, concreto e radicato nel nostro stesso destino democratico. È un silenzio che fa male, perché ci dimentichiamo troppo facilmente quanto dobbiamo, ieri come oggi, al popolo indiano.
Nella primavera del 1944, mentre l’Italia era lacerata dall’occupazione nazista e dalle battaglie che percorrevano la penisola, migliaia di soldati indiani combatterono sul nostro territorio come parte integrante dell’esercito britannico. Arrivarono dall’altra parte del mondo, da villaggi del Punjab, dalle pianure del Bengala, dalle colline del Rajastan. Portavano nomi e volti sconosciuti agli italiani, ma nelle loro marce e nei loro sacrifici stava anche il futuro della nostra libertà.
Le cronache militari ricordano il contributo fondamentale delle divisioni indiane durante la campagna d’Italia. A Cassino, nel cuore della battaglia più feroce e sanguinosa, furono i Gurkha e i Sikh, insieme ad altri reparti, a combattere strenuamente sulle alture per aprire la strada verso Roma. Molti di loro non tornarono a casa. I loro corpi riposano oggi nei cimiteri di guerra sparsi tra Lazio ed Emilia-Romagna.
A Coriano Ridge, in provincia di Rimini, si trova un monumento che ricorda i soldati indiani cremati secondo i riti religiosi. Altri 4.000, le cui tombe sono rimaste ignote, hanno il loro nome inciso sul monumento di Cassino. È un sacrario silenzioso che pochissimi italiani conoscono, eppure custodisce una parte della nostra storia nazionale: quella di una liberazione che fu internazionale, che vide uomini di continenti lontani sacrificarsi perché l’Italia potesse rialzarsi.
Eppure, nonostante questa pagina così potente, la memoria pubblica italiana raramente ricorda il contributo indiano. Le celebrazioni del 25 aprile, i manuali scolastici, le commemorazioni ufficiali tendono a concentrarsi quasi esclusivamente sui partigiani italiani e sugli alleati angloamericani. Ma senza i soldati indiani, così come senza i polacchi di Anders o i canadesi e i neozelandesi, la storia avrebbe avuto un corso diverso.
Non si tratta di sminuire il ruolo dei nostri resistenti. Si tratta di restituire giustizia e verità storica. La libertà e la democrazia in cui oggi viviamo sono state rese possibili anche da giovani contadini indiani che imbracciarono un fucile e morirono sulle montagne italiane, lontanissimi dalle loro famiglie e dalla loro terra.
Ignorare questo legame significa non soltanto essere ingrati, ma anche rinchiudersi in una visione provinciale e miope della storia. È un peccato doppio: perché priva l’Italia di una consapevolezza più ampia delle proprie radici democratiche, e perché allontana da noi un ponte naturale con una grande nazione come l’India, che oggi rappresenta una delle potenze decisive del mondo contemporaneo.
Il filo che lega India e Italia non si è interrotto nel 1945. Al contrario, è cresciuto in forme nuove. Oggi la comunità indiana in Italia è una delle più numerose e radicate. Non è un caso se la si trova in maniera particolare nelle campagne della Pianura Padana, tra le stalle e i campi dove si produce il cuore dell’agroalimentare italiano.
Chi beve un bicchiere di latte lombardo o gusta un pezzo di parmigiano reggiano deve sapere che, molto probabilmente, dietro a quel lavoro c’è una mano indiana. Centinaia di migliaia di lavoratori provenienti dal Punjab e da altre regioni hanno dato continuità e forza a settori agricoli che rischiavano di scomparire per mancanza di manodopera. Hanno imparato mestieri durissimi, hanno portato famiglie, hanno cresciuto figli che oggi parlano italiano e frequentano le nostre scuole.
La comunità indiana contribuisce non soltanto all’agricoltura ma anche all’imprenditoria, ai servizi, alla cultura. È una presenza che crea ricchezza, stabilità e sviluppo. Così come i loro nonni contribuirono alla liberazione dell’Italia, oggi gli indiani continuano a contribuire al suo futuro economico e sociale.
L’Italia, però, fatica a riconoscere questo doppio debito. Da una parte la memoria storica, che raramente viene celebrata con cerimonie ufficiali degne del sacrificio di quei soldati. Dall’altra la presenza attuale, che spesso viene raccontata soltanto in termini problematici, dimenticando il suo valore fondamentale.
La dimenticanza rischia di essere un insulto. È oltraggioso che il 15 agosto, quando l’India celebra l’indipendenza, nessuna istituzione italiana rivolga un pensiero o un messaggio ufficiale. È ingiusto che i sacrifici di migliaia di soldati indiani rimangano relegati in qualche lapide che pochi conoscono. È miope non vedere come oggi gli indiani siano un pilastro silenzioso della nostra economia.
Riconoscere questo legame non è solo un dovere morale. È anche un’occasione strategica. L’India è oggi la democrazia più popolosa del mondo, una potenza tecnologica ed economica emergente, un partner fondamentale nelle grandi sfide globali. Coltivare relazioni solide con Nuova Delhi significa rafforzare l’Italia sul piano geopolitico ed economico.
Ma queste relazioni non possono essere solo fredde intese commerciali. Devono poggiare anche sulla consapevolezza di una memoria comune, di un debito storico che ci unisce. Una memoria condivisa apre la strada a una cooperazione più autentica, fatta di rispetto reciproco e di riconoscimento.
Basterebbe che il Parlamento italiano, il 15 agosto, inviasse un messaggio di amicizia all’India. Basterebbe che nelle scuole, parlando della Seconda guerra mondiale, si spiegasse che la liberazione dell’Italia fu anche opera di uomini che venivano dall’Asia meridionale.
E basterebbe, soprattutto, che ogni cittadino italiano prendesse coscienza di questo legame. Che visitando Cassino o Coriano Ridge non vedesse soltanto nomi stranieri, ma volti di fratelli che hanno reso possibile la nostra libertà. Che guardando i lavoratori indiani nei campi non vedesse “stranieri”, ma eredi di quella stessa storia di sacrificio.
L’Italia non può permettersi di dimenticare. La nostra libertà politica e la nostra ricchezza economica devono molto a un popolo che raramente ringraziamo. Gli indiani ci hanno aiutato a liberarci dalla dittatura e oggi ci aiutano a nutrire le nostre tavole.
Onorare questo debito non è un atto di gentilezza, ma un gesto di giustizia e di lucidità. È riconoscere che la nostra storia non è mai stata chiusa nei confini della penisola. È affermare che la democrazia italiana è anche frutto di mani venute da lontano.
Il giorno in cui ci inchineremo davvero davanti al popolo indiano, passato e presente, sarà il giorno in cui l’Italia avrà imparato a guardare se stessa con gratitudine e con dignità.
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