
Partiti e politici
Rebus Conte per il Pd: fidarsi ma non troppo?
Per il Pd fidarsi di Conte e del suo movimento non è facile ma, d’altra parte, non è sufficientemente forte e “dominante” nella sua coalizione per potersi permettere di non farlo.
Era il lontano 2018 quando Giuseppe Conte fece il suo ingresso in politica diventando, dal nulla, presidente del Consiglio. Sono trascorsi soltanto sette anni da allora, sette anni che paiono almeno il doppio tanto le cose sono cambiate, si sono evolute, hanno mostrato volti nuovi e ridimensionato alcune facce di quel tempo.
Salvini e la sua Lega sono passati dall’apogeo del 34% nelle Europee del 2019 ad un misero attuale 8-9 percento, il Movimento 5 stelle è precipitato dal 33% delle politiche 2018 ad una quota inferiore al 10% nelle Europee dello scorso anno; Meloni ed il suo partito sono cresciuti di oltre 20 punti in meno di cinque anni.
Rivolgimenti impensabili e per certi versi incredibili hanno attraversato le performance di quasi tutte le forze politiche, con la sola eccezione del Pd, l’ultimo vero partito, con logiche di partito vero, rimasto nello spettro nazionale. I Democratici, dopo la veloce ubriacatura con Matteo Renzi (un’altra delle tante meteore che hanno caratterizzato gli ultimi 15 anni della vita politica italiana) hanno sostanzialmente vissuto su un piano di consenso costantemente simile, con solo qualche lieve perturbazione di pochi punti percentuali.
E questa sua forza, una costanza per certi versi invidiabile, è stata anche una sua evidente debolezza: rappresentando pur sempre una limitata quota di elettori, intorno al 20%, difficile per il Pd ammantare primazie all’interno della sua coalizione di riferimento. Perché il problema è questo: avere la forza elettorale e la riconosciuta statura del proprio leader per riuscire ad essere riconosciuto dagli alleati come il principale punto di riferimento di quell’area politica che rappresenta, si chiami centro-sinistra o opposizione o progressisti.
Ma all’indomani dell’epoca di Veltroni prima e di Renzi poi, questo non è più accaduto, e per questo motivo i suoi alleati, Giuseppe Conte in primis, hanno sempre avuto buon gioco nel rivendicare proposte e scelte politiche a volte antitetiche rispetto a quelle del Pd, senza che nessuno avesse apertamente da ridire.
Al contrario, occorre sottolinearlo, di ciò che capita dall’altra parte, nella coalizione di centro-destra, dove il partito della leader, Fratelli d’Italia, rintuzza in nome della stabilità del governo qualsiasi tentativo di fuoriuscita dalla linea adottata.
Per il Partito Democratico l’alleanza con Conte ed il Movimento 5 stelle rappresenta a tutt’oggi un enigma o, meglio, un problema da risolvere: non ne può fare a meno, come è accaduto nel 2022, per poter rappresentare una vera alternativa di governo, ma non può nemmeno fidarsene fino in fondo, visti i quotidiani distinguo su molte questioni anche cruciali, come il tema dell’immigrazione o quello dell’Ucraina.
Per proporsi come coalizione in grado di sconfiggere il centro-destra alle prossime legislative non bastano accordi sulle candidature delle regionali o in qualche comune, occorre un programma condiviso, proposto dal partito-leader e condiviso nelle linee principali e quindi accettato dagli altri componenti della compagine di riferimento.
Ancor oggi Giuseppe Conte, come ci raccontano i sondaggi, è tendenzialmente ben visto dagli elettori del Pd, mentre non è altrettanto vero il contrario: Schlein ha infatti un gradimento piuttosto basso tra coloro che votano Movimento 5 stelle. E dunque l’appoggio di questi ultimi non è certo automatico.
Insomma, per il Pd fidarsi di Conte e del suo movimento non è facile ma, d’altra parte, non è sufficientemente forte e “dominante” nella sua coalizione per potersi permettere di non farlo.
Un bel dilemma.
Università degli Studi di Milano
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