Musica
Un Capolavoro di Fallimenti: Nebraska e l’Arte di Sbagliare per Rinascere
Esce Nebraska ’82 e rovescia tutto: l’album originale chiude il cofanetto, dopo errori e outtakes. Nel frattempo, il film “Deliver Me From Nowhere” abbraccia la stessa estetica dell’imperfezione, celebrando il processo creativo doloroso di un capolavoro.
Quando Bruce Springsteen registrò Nebraska nel gennaio del 1982, non immaginava che quelle demo casalinghe incise su un registratore a quattro tracce Tascam sarebbero diventate il prodotto finale. Quel nastro grezzo, con i suoi rumori di fondo e le sue imperfezioni tecniche, si trasformò in uno degli album più influenti della sua carriera (e uno dei più amati dai fan più sfegatati). Oggi, con l’uscita del cofanetto Nebraska ’82 e del film “Deliver Me From Nowhere”, assistiamo a un doppio omaggio a quell’irripetibile momento creativo, entrambi permeati dalla stessa atmosfera di perfetta imperfezione che definì l’opera originale.
Il cofanetto Nebraska ’82 (uscito in contemporanea con l’arrivo nei cinema mondiali del film) offre un’archeologia sonora di quell’inverno del 1981-82, quando Springsteen, nella solitudine di una casa presa in affitto nella campagna isolata del New Jersey, diede voce a storie di emarginati, perdenti e anime solitarie che attraversavano un’America in crisi. Ma è la struttura stessa del cofanetto a rivelare un approccio radicalmente diverso dalle celebrazioni discografiche convenzionali. Contro ogni logica commerciale, l’album originale non apre la raccolta come ci si aspetterebbe, ma la chiude, posizionato come destinazione finale di un viaggio attraverso l’imperfezione.
Questa scelta di sequenza trasforma l’errore in narrazione evolutiva. Prima vengono gli outtakes, i tentativi falliti, le canzoni scartate che non trovarono posto nel disco originale: non scarti da dimenticare, ma prove necessarie, passi falsi che dovevano essere compiuti. Poi arriva l’Electric Nebraska, quella versione con la E Street Band che Springsteen stesso rinnegò, ritenendola troppo levigata, troppo professionale per catturare l’essenza disperata di quelle canzoni. Ascoltandola ora in versione ufficiale (dopo averne assaggiato porzioni in diversi bootleg girati clandestinamente nel corso dell’ultimo quarantennio), dopo aver conosciuto la versione finale, capiamo perché doveva essere abbandonata: quegli arrangiamenti elettrici, pur tecnicamente impeccabili, soffocavano la disperazione nuda delle storie. L’errore di Electric Nebraska non fu musicale, ma concettuale: cercava di vestire elegantemente personaggi che dovevano rimanere scalzi.
Poi arrivano le registrazioni live del 2025, e qui si compie un paradosso affascinante. La voce di Springsteen, ormai settantacinquenne, porta addosso tutto il peso degli anni: è graffiata, consumata, venata di crepe che il tempo ha scavato nelle corde vocali. Eppure, ascoltando queste versioni recenti, si ha la sensazione che sia proprio questa la voce che il trentaduenne Springsteen cercava disperatamente di evocare nel 1982. Allora, nella sua casa del New Jersey, abbassava volontariamente il tono, sforzava la gola per suonare più vecchio, più vissuto, più stanco di quanto non fosse realmente. Voleva incarnare i suoi personaggi: disoccupati di mezza età, killer solitari, uomini logorati dalla vita.
Ora, nel 2025, quella voce è finalmente arrivata naturalmente. Le canzoni di Nebraska suonano come se fossero state scritte per questa voce invecchiata, come se avessero aspettato quarant’anni per trovare il loro timbro autentico. È un’ironia crudele e poetica: il giovane artista che fingeva di essere vecchio è diventato l’anziano artista che finalmente possiede quella saggezza dolorosa che cercava di simulare. Il live del 2025 non è quindi un semplice documento nostalgico, ma il compimento di una profezia vocale: Springsteen è diventato i suoi personaggi.
Solo alla fine, dopo aver attraversato tutti questi strati di “errori” e sperimentazioni, dopo aver ascoltato la voce che cercava di essere invecchiata e quella che lo è diventata davvero, l’ascoltatore raggiunge l’album canonico, ora comprendendolo come il punto di arrivo di un processo dove ogni deviazione era indispensabile.
È come se Springsteen avesse voluto donare ai suoi fan l’intera mappa degli sbagli che lo hanno condotto alla verità artistica. Quegli “errori” non sono relegati in appendice come bonus track per completisti, ma diventano il cuore pedagogico della raccolta: mostrano che il capolavoro non nasce per illuminazione improvvisa, ma attraverso un faticoso processo di eliminazione, di tentativi sbagliati che insegnano dove non andare.
Parallelamente, il film “Deliver Me From Nowhere” diretto da Scott Cooper e interpretato da Jeremy Allen White non cerca di ripulire o romanticizzare quel periodo, ma abbraccia la stessa filosofia dell’errore come tappa evolutiva fondamentale. Il film dedica ampio spazio alle sessioni di studio fallite, ai momenti di frustrazione quando le registrazioni con la band non funzionavano, alla crescente consapevolezza che forse la demo casalinga conteneva già tutto ciò che serviva. Non sono scene di riempimento, ma il nucleo stesso della narrazione: mostrano un artista che impara ad ascoltare i propri errori invece di correggerli ossessivamente.
La scelta di Jeremy Allen White come protagonista riflette questa sensibilità: un attore capace di mostrare il fallimento non come sconfitta ma come scoperta, la vulnerabilità non come debolezza ma come coraggio. Il film ricrea l’atmosfera del processo creativo che il cofanetto documenta: ogni falsa partenza, ogni arrangiamento scartato diventa un gradino verso la rivelazione finale che la perfezione cercata stava già nelle imperfezioni della prima registrazione.
Ciò che rende affascinante questo doppio rilascio è come entrambi i progetti trasformino l’errore da elemento da nascondere a strumento di comprensione. In un’epoca dominata dalla perfezione digitale, dove ogni sbavatura può essere cancellata, Nebraska ’82 e “Deliver Me From Nowhere” propongono una controstoria: il valore non sta solo nel risultato finale, ma nel percorso tortuoso che ci ha condotto lì.
In definitiva, Nebraska ’82 e “Deliver Me From Nowhere” funzionano come manifesti di una poetica dell’imperfezione evolutiva: l’errore non come macchia da rimuovere, ma come maestro severo e necessario. La scelta di posizionare l’album originale alla fine del cofanetto è l’ultimo, coraggioso atto di questa filosofia: ci costringe a camminare attraverso tutti gli sbagli prima di arrivare alla meta, suggerendo che forse il capolavoro è tale proprio perché contiene in sé la memoria di tutti i fallimenti che lo hanno reso possibile. E quella voce invecchiata del 2025 ci ricorda che a volte bisogna vivere un’intera vita per possedere davvero ciò che da giovani si poteva solo immaginare.
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