Charmaine Chua: “Una strategia sindacale per i lavoratori di Amazon”

12 Maggio 2021

Charmaine Chua, studiosa di logistica e collaboratrice di Amazonians United, ci spiega come in alcuni magazzini americani è stato possibile organizzare i lavoratori attorno a elementari rivendicazioni sindacali, anche in assenza di un sindacato riconosciuto, e affronta il tema della strategia. Se Amazon usa la sua tentacolare rete logistica per vanificare gli scioperi, per impedirglielo è necessario sfruttare le “strozzature” della rete stessa. Una riflessione che ci pare di grande attualità anche per l’Italia. 

Charmaine Chua è una studiosa di logistica, docente al Department of Global Studies dell’Università di California, ma fa anche parte del Solidarity Committee di Amazonians United, la rete di lavoratori-attivisti che da un paio d’anni in alcuni magazzini americani di Amazon sperimenta forme di sindacalizzazione alternativa a quella delle tradizionali unions. Di recente ha pubblicato un articolo sul sito americano Jacobin, che ci ha colpito, perché affronta un tema a nostro avviso decisivo anche in Italia, dove in pochi anni la presenza del gruppo di Jeff Bezos è cresciuta a ritmo elevato, ritmo a cui la pandemia sembra aver impresso un’ulteriore accelerazione. Il tema è quello della strategia sindacale. I lavoratori dei magazzini Amazon e i driver delle ditte d’appalto, a cui il gruppo affida la consegna dei pacchi, il 22 marzo hanno dato vita al primo sciopero nazionale dell’intera filiera. Il 21 aprile nell’hub di Castel Sant’Angelo (Piacenza), uno dei più grandi, è stata eletta la prima rappresentanza sindacale in un magazzino italiano di Amazon: la CGIL è risultata il primo sindacato, seconda l’UGL. Tuttavia l’interrogativo su come strappare migliori condizioni di lavoro (spesso ancor più che salari più alti), contrastare l’utilizzo massiccio di lavoro precario, l’imposizione di una disciplina da caserma della forza-lavoro e di ritmi di lavoro forsennati non è sciolto. Amazon è un colosso, che applica i sistemi organizzativi e le tecnologie più avanzate per spremere fino all’ultima goccia di produttività. Ha adottato un’efficace strategia di espansione che sfrutta la geografia economica e sociale del territorio per plasmarlo a proprio uso e consumo, spesso anche grazie alla complicità di amministrazioni allettate da ricadute occupazionali e benefit di altro genere (a Fara Sabina, il comune che ospita l’hub di Passo Corese, ad aprile Amazon ha pagato uno screening di massa per i 1.400 studenti delle scuole locali). Soprattutto quando la sproporzione di forze è così grande disporre di una strategia è determinante. Nell’articolo su Jacobin Charmaine Chua poneva tre questioni strategiche decisive, anche a partire da un bilancio della sconfitta del sindacato nel recente referendum a Bessemer, in Alabama. Il primo è la necessità di una strategia sindacale che tenga conto del funzionamento della rete logistica e dei suoi punti vulnerabili. Il secondo riguarda l’allargamento di questo ragionamento alle catene di fornitura globali. Infine la sfida di adeguare anche il modello sindacale, anche aggirando gli ostacoli normativi. Partiamo proprio da qui.

Puoi spiegarci che cos’è Amazonians United e in cosa si differenzia dai sindacati tradizionali?

Amazonians United è un network militante che si occupa di organizzare i lavoratori nei magazzini. Negli USA, man mano che Amazon diventava più potente, sono nati sempre più soggetti che cercano di organizzare i lavoratori in modi diversi. Alcuni sono sindacati tradizionali come quelli che avete in Italia. Negli USA come sai il tasso di sindacalizzazione è molto più basso che in Italia e i sindacati devono operare alle condizioni stabilite dalla normativa sul lavoro. Spesso, come abbiamo visto a Bessemer, i funzionari sindacali arrivano in un posto di lavoro per un periodo breve, cioè non nell’ottica di crearvi gruppi di lavoratori organizzati in una prospettiva di lungo termine. Piuttosto organizzano velocemente un’elezione sindacale, cioè raccolgono i moduli con le firme dei lavoratori, li presentano al Labour Relations Board, poi c’è il voto, vincono o perdono e se ne vanno.

Il modello seguito da Amazonians United è molto differente. Sin dapprincipio AU non cerca di organizzare un sindacato di tipo tradizionale. Organizzazioni come United Auto Workers o United Electrical Workers of America sono sindacati tradizionali, hanno una struttura formale, sono legalmente riconosciuti dallo Stato e sono i soggetti preposti a organizzare le elezioni sindacali in collaborazione col Labour Relations Board. AU non è un sindacato in questa accezione del termine, cioè non è legalmente riconosciuto, ma si considera comunque un sindacato, cioè uno strumento per organizzare i lavoratori nel posto di lavoro e non pensa che il riconoscimento da parte degli Stati Uniti sia una condizione necessaria per svolgere questo compito. Questo è importante perché per AU la priorità è prima di tutto e soprattutto costruire il potere contrattuale dei lavoratori a partire dal loro posto di lavoro e organizzarli in modo permanente.

Come siete organizzati?

L’azione di AU va avanti da un paio di anni, è iniziata da piccoli gruppi di lavoratori attivi in diversi magazzini degli USA e ora si sta trasformando in un grande network.  Diciamo che ci siamo organizzati su tre livelli. C’è AU nel suo complesso, cioè tutti i lavoratori coinvolti nei gruppi organizzati nei diversi magazzini di Amazon in cui siamo presenti. I principali sono a Chicago, New York, Atlanta, nel Kentucky, a Sacramento e stiamo crescendo in qualche altra zona. Poi c’è il livello superiore, quello che chiamiamo root network, che è il cuore organizzativo, formato da lavoratori di Amazon che discutono le strategie sindacali, fanno le visite a casa dei colleghi e si incontrano una volta la settimana per condividere le strategie sperimentate nei magazzini degli USA.

Sono tutti dipendenti di Amazon?

Sì, sono tutti dipendenti di Amazon e questa è la priorità di AU. Sono i lavoratori a scegliere le strategie di intervento e i dipendenti Amazon che organizzano altri dipendenti di Amazon. Non c’è nessuno che guida da fuori. E poi c’è un terzo livello, quello che chiamiamo Solidarity committee, di cui faccio parte io. Io non sono una lavoratrice di Amazon, sono una studiosa di logistica e un’insegnante e il comitato è formato da persone come me, che vogliono impegnarsi in modo volontario per aiutare i lavoratori di Amazon. Noi facciamo quello che i lavoratori di Amazon ci chiedono di fare. Io, ad esempio, dirigo il team di ricerca.

Quali sono i temi di cui vi occupate?

Sono svariati e su alcuni negli anni AU ha ottenuto dei successi significativi. Ad esempio, durante la pandemia abbiamo raccolto 4.000 firme, 2.500 lavoratori negli USA e 1.500 in Europa, a sostegno di una petizione, in cui denunciavamo il fatto che Amazon non prendeva sufficienti precauzioni contro il covid-19 nei suoi impianti e abbiamo chiesto che venissero rispettati alcuni standard igienici e di sicurezza. I lavoratori chiedevano che i magazzini dove c’erano state infezioni fossero  chiusi e sanificati, ma durante il lockdown in realtà c’erano molti ordini e, per farvi fronte, l’azienda aveva addirittura annunciato un aumento temporaneo delle paghe. Grazie alla petizione e ad alcuni scioperi siamo riusciti a ottenere una riduzione dei volumi di lavoro e la misurazione della temperatura nei magazzini.

Sul sito di AU ho letto un elenco di piccoli risultati, miglioramenti delle condizioni di lavoro, tipo l’installazione di distributori d’acqua, ventilatori e aria condizionata o misure contro i capi che alzano la voce coi loro sottoposti, ma anche che avete ottenuto permessi retribuiti, il riconoscimento dell’indennità di malattia ad alcuni dipendenti a cui Amazon inizialmente lo negava e il reintegro di alcuni lavoratori licenziati. In Italia uno dei problemi più sentiti, oltre alla disciplina militare nei magazzini,  è il precariato. C’è un turnover continuo dei dipendenti e questo ovviamente rende anche più difficile organizzarli nel posto di lavoro. È così anche negli Stati Uniti e quali  altri problemi incontrate nei magazzini?

Negli USA abbiamo lo stesso problema e nutriamo analoghe preoccupazione per gli effetti di questo continuo turnover. Il modello applicato da Amazon si basa sull’utilizzo di lavoro part-time o comunque anche poco al di sotto dell’orario pieno, in modo che i lavoratori non abbiano diritto di godere integralmente delle prestazioni sociali, ad esempio sanitarie, che Amazon invece riconosce ai full-time. Io sono una ricercatrice e quindi non sono la persona più adatta per parlarti dei problemi concreti che si vivono sul lavoro, ma dal punto di vista sindacale il problema certamente, come dicevi, è riuscire a entrare in contatto coi lavoratori e a organizzarli. Il turnover, infatti, ha diversi effetti. Uno è che la comunità dei lavoratori si rinnova di frequente. C’è gente che lavora un mese, a volte tre mesi, più raramente capita che qualcuno lavori tra i due e i cinque anni, perciò per noi che vogliamo avere degli organizzatori a lungo termine riuscire a trovare persone che stiano a lungo in Amazon è la vera sfida. Questo è il primo problema: trovare militanti sindacali per un periodo lungo. Fare gli organizzatori poi è un sacrificio: sacrifichi il tuo tempo, sacrifichi la tua paga, sacrifichi i tuoi anni migliori, quando hai 30-40 anni, perché Amazon paga salari molto bassi e molti in realtà potrebbero aspirare a lavori migliori. Per questo una cosa di cui stiamo discutendo è come aumentare la nostra raccolta fondi in modo da poter integrare il reddito dei nostri attivisti.

Il secondo effetto del turnover è che è più difficile mantenere relazioni coi colleghi. Il metodo di intervento di AU consiste proprio nel creare relazioni nel posto di lavoro, improntate a quella fiducia che alla fine permette ai lavoratori di esercitare collettivamente la propria forza in azienda, ad esempio di decidere che un giorno tutti insieme si blocca il lavoro. Con l’avvicendamento continuo è molto difficile creare questo tipo di familiarità. Spesso ci vogliono mesi e anni per creare un rapporto di fiducia con persone che vanno a lavorare in Amazon e magari all’inizio non capiscono perché devi organizzarti contro i padroni. Ci vuole tempo per portarli ad avere una coscienza politica. Non so come sia in Italia, ma negli USA la cultura è molto individualista. Viene detto loro che se non si risparmiano e lavorano a testa bassa saranno promossi e quindi certo non sono incoraggiati, voglio dire anche in termini culturali, a interessarsi dei potenziali vantaggi dell’agire collettivo.

Il terzo punto è, come puoi immaginare, che la somma del turnover e di turni irregolari fa sì che sia difficile trovare lavoratori a cui parlare, perché se monti e smonti dal turno sempre in orari diversi è difficile trovare sempre gli stessi colleghi alle stesse ore. Insomma non è come quelle aziende in cui tutti i lavoratori entrano la mattina alle 9 ed escono il pomeriggio alle 17.

Ma accanto al turnover un altro problema è rappresentato dal tipo di espansione di Amazon e qui cominciamo a entrare nel discorso dei choke points, le strozzature, insomma i punti vulnerabili della rete logistica. Il modello di espansione di Amazon si fonda su una precisa strategia: Amazon apre i suoi magazzini nelle grandi città americane, ma appena fuori dalle zone più rinomate. Se c’è un centro città o una contea più ricchi, puoi star certo che i magazzini di Amazon verranno costruiti dall’altra parte, dove vive una popolazione di lavoratori a basso reddito. Amazon sa che in quei quartieri c’è gente che ha bisogno di lavorare e che non può andare a lavorare tanto distante. Uno dei problemi è che le organizzazioni di sinistra negli USA operano soprattutto nei centri città, perciò non ci sono molte infrastrutture, sedi, associazioni, organizzazioni e cultura di sinistra nelle periferie. Ma negli USA, e immagino anche in Italia, è proprio qui che si concentrano gli immigrati, i rifugiati, noi diciamo la popolazione razzializzata. Perciò c’è una netta separazione tra le periferie dove si concentra la povertà su cui fa leva Amazon e la sinistra, che spesso non è una sinistra di classe e non ha rapporti coi lavoratori.

Poi c’è una questione inerente la socializzazione della classe operaia.  Nei magazzini c’è una forte segmentazione interna. Intendo dire che spesso i manager mettono gruppi di lavoratori gli uni contro gli altri facendo leva proprio sul processo lavorativo, ad esempio dicendo che quegli altri sono lenti e in sostanza facendo di tutto per evitare che nasca una qualche forma di solidarietà tra colleghi.

E c’è un ulteriore aspetto che riguarda le dimensioni dei magazzini. Negli USA, ma credo che anche nel resto del mondo, Amazon ha tre tipi di magazzini: i fulfillment center (centri di evasione degli ordini), i sortation center (centri di smistamento) e le delivery station (stazioni di consegna). I fulfillment center sono i più grandi, anche 5.000 lavoratori, mentre le delivery station sono più piccoli, di solito tra i 100 e i 250 dipendenti. Paradossalmente gli affiliati ad AU sono perlopiù nelle delivery station, mentre nei fulfillment center sono pochi. AU ha scoperto che organizzare i lavoratori nei centri più grandi è maledettamente difficile, perché sono enormi, perché con 5.000 lavoratori stabilire dei contatti è più difficile e perché il turnover lì è più alto. Inoltre in questi magazzini i lavoratori sono estremamente isolati. Qui l’organizzazione del lavoro, infatti, si basa su figure come i pickers, che prendono la merce sugli scaffali e corrono avanti e indietro tutto il giorno o chi confeziona pacchi per l’intero turno stando da solo nella sua postazione. Non c’è un nastro trasportatore dove i lavoratori hanno la possibilità di parlare.

Stai dicendo che è più semplice partire dai magazzini più piccoli?

Sì, i fulfillment center sono quelli che hanno più peso in termini strutturali, perché sono più grandi e ce ne sono di meno, le delivery station sono più piccole, però i lavoratori stanno al nastro trasportatore dove avviene il reimballaggio e una nuova scansione dei pacchi che poi vanno a finire sui camion, hanno più relazioni sociali ed è più facile costruire una qualche forma di organizzazione. D’altra parte, proprio perché sono più piccoli e meno strategici, per poter avere un impatto sulla struttura di Amazon partendo dalle delivery station bisogna agire in modo coordinato. Qui appunto veniamo al tema delle strozzature, dei punti vulnerabili della rete di Amazon. Per bloccare la rete bisogna capire da quale centro di smistamento ogni stazione di consegna riceve i pacchi e da quale fulfillment center ricevono i pacchi  i centri di smistamento. E siccome Amazon non rilascia queste informazione sta ai lavoratori cercare di capirlo. Su ogni pacco c’è un adesivo che dichiara da dove arriva la merce. In termini strategici questo è un aspetto decisivo, perché se le delivery station sono quelle più facili da organizzare sindacalmente per il modo in cui i lavoratori interagiscono al loro interno, per fermare i pacchi dobbiamo essere in grado di bloccarne un numero sufficiente. Prendiamo ad esempio Chicago: in città ci sono tante delivery station e attorno ci sono anche fulfillment e sortation center. Se blocchi una delivery station Amazon, avendone tante, può comunque ridirigere molto agevolmente i pacchi facendoli passare attraverso un’altra stazione. Il problema è come far sì che Amazon non vanifichi la forza dei lavoratori deviando i flussi. Ci sono alcuni esempi da fare, come il caso della Germania e della Polonia. I lavoratori tedeschi sono sindacalizzati e poiché scioperavano Amazon ha costruito un grande fulfillment center in Polonia, in modo che quando in Germania i magazzini sono bloccati la merce può passare da lì. In Europa, dove le distanze sono minori è più facile organizzarsi internazionalmente. Negli USA, con le loro enormi distese, i flussi possono essere deviati da una all’altra grande città. Ma se prendiamo una di queste grandi città, dove si trova il vero target di Amazon, e se abbiamo la forza di bloccare l’intera rete cittadina, ecco che li emerge la strozzatura. Ovviamente non si tratta di strozzature come quelle a cui eravamo abituati un tempo. Tradizionalmente i minatori avevano un grande potere contrattuale perché se riuscivano a bloccare la loro miniera, in quel modo bloccavano anche tutto quello che c’era attorno. Nel modello della logistica, naturalmente, è molto diverso, perché non basta bloccare un solo nodo centrale. Piuttosto dobbiamo pensare alle strozzature in una forma più distribuita, una rete di punti vulnerabili. Secondo la mia analisi le città costituiscono le vere strozzature della rete di Amazon, perché sono i punti dove più convergono i pacchi e il nostro compito è capire come riusciamo a coordinare sindacalmente tutte le delivery station intorno alle città. È per questo che la strategia che abbiamo scelto come AU non è organizzare i lavoratori nel piccolo magazzino sperduto in Arizona, ma puntare su alcune città più importanti: New York, Chicago e la Bay Area – San Francisco, Sacramento, Berkeley. Sono le aree dove stiamo cercando di accumulare più forza possibile, così da poter utilizzare questo modello basato sulle strozzature.

Per questa ragione penso che l’errore fatto a Bessemer, in Alabama, sia stato concentrarsi sulla sindacalizzazione di un solo fulfillment center. Anche se il sindacato avesse vinto il referendum, posso immaginare che Amazon avrebbe fatto diventare quel magazzino un nodo trascurabile nella sua rete, avrebbe costruito un altro fulfillment center nei dintorni e deviato gran parte dei pacchi lì. Essendo così grande Amazon ha la forza di aggirare i problemi localizzati in singoli magazzini. E se tu ti organizzi magazzino per magazzino secondo me non hai una strategia in grado di agire sulla stessa scala su cui viaggia la catena di fornitura di Amazon.

Avete rapporti coi sindacati tradizionali?

AU non collabora ufficialmente con alcun sindacato tradizionale. E’ un sindacato indipendente e al momento non c’è alcun piano di diventare un sindacato riconosciuto ufficialmente dallo Stato. Tuttavia a volte collaboriamo, ci scambiamo informazioni con alcuni sindacati che operano attorno ad Amazon. Il principale di questi è la International Brotherhood of Teamsters. I Teamsters sono il sindacato che organizza i fattorini di UPS, per cui hanno un peso enorme nel settore logistico, visto che UPS è una delle principali compagnie del settore. I Teamsters vedono la crescita di Amazon come una grande minaccia per il futuro dei propri iscritti. Perciò hanno cominciato a guardare con interesse alla sindacalizzazione all’interno di Amazon, ampliando il loro storico intervento in UPS. Nella zona di Los Angeles hanno anche degli iscritti nei magazzini di Amazon. Con loro c’è una collaborazione in termini di ricerca, addestramento degli attivisti e ci scambiamo informazioni sulla logistica. Ma è una collaborazione informale. In generale però – non so come sia la situazione italiana, – qui, se vuoi avere un riconoscimento, non c’è altra scelta che i sindacati tradizionali, ma quei sindacati sono diventati molto burocratizzati e non fanno molto lavoro di organizzazione in azienda insieme ai lavoratori. Piuttosto creano dall’alto dei comitati di iscritti in cui portano altri lavoratori sindacalizzati da altre aziende. Perciò AU ha una posizione critica verso i sindacati tradizionali e questa è la ragione per cui non c’è una collaborazione ufficiale.

Uno dei temi su cui gli attivisti di Amazonians United si sono mobilitati sono i turni megacycle. Di cosa si tratta?

Sì, questo è un elemento molto importante per quanto riguarda le condizioni di lavoro. Non so se esiste in Italia. In Amazon i turni sono di 8 ore, ma di recente l’azienda in alcuni impianti ha introdotto il megacycle, portandole a 10. Oltre all’aumento di due ore è cambiata la finestra temporale. Ad esempio chi prima lavorava dalle 22 alle 8 di mattina o da mezzanotte alle 10 adesso deve lavorare dalle 1,15 di notte alle 11,15. I lavoratori ricevono comunque la paga notturna per tutto il turno e la principale ragione per cui hanno introdotto questa novità crediamo sia estendere la finestra di consegna entro un giorno caratteristica di Amazon, cioè sostanzialmente introdurre più flessibilità a beneficio dei clienti, ma ovviamente dal punto di vista dei lavoratori è terribile, soprattutto per le madri. Se esci dal lavoro alle 8 o alle 10 di mattino hai tempo di occuparti dei figli, di portarli a scuola ed eventualmente poi di occuparti del tuo secondo lavoro. Perché, come dicevo prima, Amazon assume spesso part-time e quindi sono tantissimi quelli che hanno il secondo lavoro. Il megacycle spesso interferisce coi turni del secondo lavoro, che di regola iniziano il mattino, e crea problemi a chi ha famiglia, perché significa arrivare a casa quando i tuoi familiari se ne sono già andati. Amazon coi lavoratori ha adottato la politica del “prendere o lasciare”. Se non vuoi fare il megacycle sostanzialmente perdi il lavoro. Come dicevo è particolarmente pesante per le madri che devono scegliere se rinunciare a occuparsi dei figli o lasciare il secondo lavoro. E penso che Amazon rafforzerà questo strumento, che è stato introdotto dopo che hanno chiuso il DCH1 Chicago, una delivery station dove avevamo fatto un buon lavoro con la comunità, lanciato petizioni, ottenuto risultati sul tema del Covid. Non so di preciso perché l’hanno chiusa, ma dopo la chiusura hanno introdotto il megacycle. E sospetto che applicheranno questo modello anche a livello internazionale.

Nel tuo articolo su Jacobin parli di lavorare con le comunità e a livello internazionale, appunto. Come vi state muovendo concretamente su questo terreno. E quando parli di comunità come si intreccia l’intervento sindacale col fatto di lavorare in uno società con molte componenti razziali?

Non sempre c’è omogeneità culturale e razziale tra i lavoratori dei magazzini. A volte Amazon organizza i turni per far sia che sia così, ma non sempre. Questo è un tema interessante, cioè il fatto che a volte nella relazione coi lavoratori non pesa solo il fatto che siano lavoratori, ma anche la loro cultura, la provenienza geografica o l’identità etnica. E a volte questo diventa un fattore importante dal punto di vista sindacale, come è successo nel Minnesota, dove in alcuni magazzini la forza-lavoro è prevalentemente somala. Il SEIU, che è un sindacato presente in Amazon, ha avuto un grande successo nell’organizzare i lavoratori anche facendo leva sui temi dell’immigrazione somala e in questo caso l’identità nazionale ha avuto un peso rilevante. Ma non sempre è possibile e allo stesso tempo credo che ci sia la possibilità di organizzare i lavoratori in modo trasversale rispetto alle diverse culture e provenienze: latini, neri, asiatici e bianchi.

Per quanto riguarda il coordinamento internazionale AU collabora con Amazon Workers International, che è presente tra i lavoratori Amazon in Germania, Francia, Spagna, Polonia, credo anche in Italia, e l’obiettivo che ci siamo dati è studiare delle strategie per coordinarsi lungo le catene di fornitura internazionali e rispondere anche ai metodi operativi di Amazon in Europa.

Su come coordinarsi invece tra diversi settori è una questione molto importante, ma siamo solo in una fase di riflessione iniziale. Una delle prime cose da fare sicuramente è coordinarsi coi driver di Amazon, che qui sono considerati lavoratori autonomi, quindi non fanno parte del network aziendale vero e proprio, poi ci sono gli autisti dei camion e i portuali organizzati da  ILA e ILWU, che sindacalmente sono molto forti. L’interrogativo è se questi lavoratori possono bloccare le merci che arrivano nei porti in una qualche forma di coordinamento solidale coi lavoratori di Amazon. Ma è una cosa che non è ancora successa e al momento la consideriamo solo una possibilità e un tema di discussione e approfondimento. Oggi AU è ancora molto piccola, deve crescere nel suo ambito naturale e non abbiamo le risorse per poter investire su questa strategia. Però è un aspetto importante da prendere in considerazione, perché Amazon è così enorme che non possiamo fare a meno di pensare di coordinarci coi lavoratori che spostano le merci  e le stoccano nei loro magazzini in tutto il mondo.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info dell’11 maggio. Se sei un lavoratore o un ex lavoratore di Amazon e hai storie da raccontarci o considerazioni da sottoporci puoi scriverci a: marco.veruggio@gmail.com.

TAG: amazon, Amazonians United, Charmaine Chua, logistica
CAT: Sindacati

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