Contratto TLC, “100 euro, forse e per pochi…”

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13 Dicembre 2020

Intervista con Riccardo De Angelis, delegato TIM Roma, Confederazione Cobas

Il giorno dopo la firma del rinnovo contrattuale delle telecomunicazioni al Teatro Brancaccio di Roma il segretario della CGIL Landini e il presidente di Confindustria Bonomi si intrattenevano sui rapporti tra sindacato e imprese in una fase delicatissima, in cui si intrecciano rinnovi contrattuali per i due terzi dei lavoratori italiani, pandemia e scontro sul Recovery Fund. A proposito di contratti Landini citava quello delle TLC, insieme a legno e gomma plastica, parlando di “segnali importanti che indicano lo sblocco di una situazione totalmente ferma”. Le TLC sono un settore esiguo per numero di lavoratori, ma con un peso strategico rilevante, di recente accresciuto dalla pandemia e dove soprattutto gli effetti dell’innovazione digitale sull’organizzazione del lavoro e le relazioni industriali sono arrivati prima, anticipando ciò che entro breve potrebbe avvenire più in generale in tutto il mondo del lavoro. Ne parliamo con Riccardo De Angelis, delegato sindacale alla TIM e membro della delegazione trattante della Confederazione Cobas.

Cerchiamo di inquadrare questo rinnovo in generale. Da quanto tempo era scaduto il contratto?

Il contratto è scaduto dal 2013. Nel novembre 2017 c’è stato un “accordo ponte” che ha riconosciuto 50 euro di aumento a tutti i lavoratori in attesa del rinnovo contrattuale vero e proprio. Nel frattempo ha introdotto la distinzione tra “trattamento economico minimo” (TEM) e trattamento economico complessivo. Il TEM corrisponde a spanne ai tradizionali minimi tabellari fissati dai contratti, mentre sul secondo incidono sia il cosiddetto welfare contrattuale (previdenza e sanità integrativa, fondi bilaterali ecc.) sia il cosiddetto ERS, elemento retributivo di settore, una voce legata all’andamento del settore, cioè soldi che vengono versati in busta paga ma possono essere riassorbiti in seguito se il trend previsto non viene confermato. I 50 euro dell’accordo ponte  comprendevano 40 euro di aumento tabellare e 10 di ERS.

Ok. Poi un mese fa è arrivato questo rinnovo, citato sia da Confindustria sia dalla CGIL come prova che si possono chiudere contratti contenenti anche aumenti salariali.

Sì, su questo aspetto è stata fatta una grande propaganda, perché è chiaro che questo rinnovo apparentemente smentisce le dichiarazioni del presidente di Confindustria Bonomi, che da mesi predica rinnovi contrattuali senza aumenti retributivi. Un aumento di 100 euro al quinto livello di questi tempi non è disprezzabile, potremmo dire, ma se poi vai a vedere ti accorgi di due cose. Una è che dopo otto anni si porta a casa un aumento di 150 euro, 100 di contratto e 50 di accordo ponte, mentre nel 2009 e nel 2013 dopo quattro anni gli aumenti erano stati rispettivamente di 129 e 135 euro. Cioè in otto anni i salari sono cresciuti poco più di quanto erano cresciuti in quattro nei due precedenti rinnovi. E dei 150 euro di aumento solo110 sono consolidati, mentre 40 sono legati all’andamento del settore. Senza contare che come sempre sono scaglionati in tranche, la prima ad aprile 2021, l’ultima addirittura a ottobre 2022, per cui quei 150 euro andranno a regime due anni dopo la firma.

Nei contratti di solito ci sono due aspetti fondamentali: uno è il costo complessivo per le aziende e l’altro come vengono distribuiti i soldi tra i lavoratori.

Qui, se andiamo a vedere come vengono distribuiti gli aumenti per livello di inquadramento, salta agli occhi che tra gli aumenti al quarto livello, 63 euro, e quelli al settimo, 89 euro, ci sono 26 euro di differenza, mentre solo tra il terzo e il quarto ce ne sono circa 30. E qui entra in gioco la struttura del lavoro nelle TLC. Su meno di 250.000 addetti poco più di 50.000 stanno nelle grandi aziende. TIM fa la parte del leone, con 42.000 dipendenti, seguita da Vodafone, che ne ha 8-9.000. Le altre sono call center e piccole aziende, dove la maggior parte dei lavoratori è inquadrata ai livelli più bassi, perlopiù secondi e terzi, pochi quarti, mentre nelle grandi aziende si va dal quarto in su. Quindi chi ha preso i famosi 70+30 euro, un aumento del 4%, sono 25-30.000 lavoratori, il 10% del totale. Gli altri hanno preso aumenti dal 2% in giù. Questa stratificazione riflette una trattativa lunga e faticosa perché i call center in realtà volevano un contratto a parte, che concedesse loro più libertà sul salario, ma anche sulla parte normativa, ad esempio sul tema del controllo a distanza. La mediazione raggiunta ha consentito di mantenere un unico contratto accontentando i call center, che pagheranno aumenti miseri ai loro dipendenti e allo stesso tempo previene il malcontento dei lavoratori nei grandi gruppi, dove ci sono più rischi di una reazione sindacale.

Poi c’è il nodo dell’occupazione, con l’istituzione di un fondo di solidarietà contrattuale che dovrebbe intervenire in caso di esuberi.

Asstel, l’associazione datoriale aderente a Confindustria, da tempo chiedeva insieme a CGIL CISL UIL un fondo per accompagnare la trasformazione digitale, che naturalmente mette a rischio migliaia di posti di lavoro. Basti pensare al risparmio di lavoro umano derivante dall’impiego dell’intelligenza artificiale. In questi anni questo processo è stato accompagnato da contratti di solidarietà, cassa integrazione e dai cosiddetti contratti di espansione, cioè una riduzione dell’orario per tutti i dipendenti, non per evitare esuberi, ma per permettere nuove assunzioni. Il fondo di solidarietà è il nuovo strumento adottato per gestire questa situazione e verrà finanziato per un terzo con una trattenuta in busta paga, per un terzo dalle aziende e per un terzo dallo Stato, anche se manca ancora il placet del ministero.

L’aspetto paradossale è che parliamo di esuberi e aumenti del 2% mentre le TLC crescono, anche a causa della pandemia.

E infatti TIM nel terzo trimestre ha visto aumentare il margine operativo lordo, cioè i profitti, del 38% rispetto al 2019 anche se i ricavi sono scesi del 13%. Come è possibile? E’ aumentata la redditività perché la pandemia, in particolare lo smart working – in realtà è lavoro remotizzato – ha abbattuto i costi industriali. Qualche tempo fa i manager di TIM fecero una lezione universitaria agli studenti di sociologia del lavoro spiegando che lo smart working permette di abbattere fino al 30% dei costi industriali. Tieni presente che si tratta di un’azienda che solo a Roma possiede 60 sedi, che significa 60 palazzi. Oggi molte delle sedi aziendali sono diventate superflue. Nel 2018, quando TIM propose i contratti di solidarietà, come Cobas indicammo come alternativa la riduzione dell’orario di lavoro, facendo leva sul fatto che ridurre la presenza oraria dei dipendenti in azienda avrebbe consentito risparmi sufficienti a finanziare l’integrazione del salario al 100%, lasciando anche un margine all’azienda.

E invece?

E invece Asstel e Confindustria spingono sul tasto dell’orario effettivo. Cioè sull’idea, che ricorda un po’ la politica della FIAT quando introdusse il famigerato sistema di produzione TMC2, che l’azienda retribuisca soltanto le ore di lavoro effettivo. Già oggi sia in TIM sia in alcuni call center ci sono lavoratori per cui l’orario di lavoro scatta non quando entrano in azienda, ma quando avviano il computer. Così come ci sono accordi che hanno escluso il tempo mensa dall’orario di lavoro. Il problema è: come si coprono le ore che verrebbero decurtate dall’orario effettivo? Tramite il fondo di solidarietà? Un mese fa, ad esempio, è stato firmato un accordo sul fondo nazionale delle competenze. Si tratta di soldi europei per la formazione ai fini della trasformazione digitale, che possono essere utilizzati anche in presenza di ammortizzatori sociali. Questo comporta che i lavoratori andranno a fare formazione in orario di lavoro, ma a pagarli non sarà l’azienda.

Vuol dire anche, correggimi se sbaglio, che o i fondi sono illimitati oppure non ci saranno per coprire la riduzione d’orario per tutti i lavoratori.

Certo e anche in questo caso i grandi gruppi farebbero la parte del leone. Già è successo coi contratti di espansione di cui ti parlavo. Originariamente non era previsto che intervenisse lo Stato. Poi il Conte 1 prima di cadere, nel luglio del 2019, mise a bilancio una somma per integrare i salari. E TIM il 19 luglio pretese di fare un accordo sindacale al più presto per accedere al fondo e svuotarlo. E’ chiaro che non tutte le aziende hanno la capacità di muoversi così rapidamente.

Torniamo al contratto. Ci sarà il referendum?

Ci saranno delle assemblee telematiche con tutte le complicazioni del caso. Le confederazioni hanno fatto un comunicato dicendo che chi vuole partecipare dovrà contattare i delegati che manderanno il link per collegarsi. E’ chiaro che questo non favorisce la partecipazione. A Milano, dove TIM ha 7-8.000 dipendenti hanno partecipato una cinquantina di colleghi.  Ovviamente pesa il fatto che il clima tra i lavoratori non è molto combattivo. Su questioni specifiche è diverso, ad esempio, il 25 novembre abbiamo fatto uno sciopero abbastanza riuscito dei tecnici, cioè dei colleghi che vanno a casa dei clienti e quindi oggi sono esposti al rischio di contagio. Ma sui temi generali è difficile mobilitare dei lavoratori chiusi in casa a lavorare.

Un’ultima questione che si riallaccia alla distribuzione degli aumenti. Come sai da qualche giorno è partita questa campagna sul salario minimo orario che noi sosteniamo. Nel vostro caso sarebbe stato un handicap al tavolo di trattativa come dicono i grandi sindacati?

Io penso che tutti i lavoratori italiani abbiano bisogno del salario minimo. Ma faccio una riflessione specifica sul nostro rinnovo e dico che è un accordo fatto anche contro il salario minimo e infatti all’articolo 39 è stata cancellata la parte che definiva il salario come retribuzione oraria a partire da cui si calcola la retribuzione mensile e poi quella giornaliera. Oggi nelle TLC la paga è determinata contabilmente come paga mensile. Può sembrare una questione formale, ma a me pare che sia un modo per contrastare eventuali interventi legislativi sulla paga oraria. In più è chiaro che se ci fosse stato un minimo l’operazione di distribuzione degli aumenti sbilanciata verso l’alto, con gli aumenti più alti per meno lavoratori, non sarebbe stata possibile. A dimostrazione che in realtà dal punto di vista dei lavoratori la contrattazione collettiva col salario minimo verrebbe rafforzata.

L’intervista è tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info dell’11 dicembre.

TAG: Call center, cobas, Riccardo De Angelis, rinnovo contrattuale, Salario minimo, telecomunicazioni, TIM
CAT: Sindacati

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