Manganaro (FIOM Genova): ‘Contro la crisi CIG al 90% e salario minimo’

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3 Luglio 2020

Intervista a Bruno Manganaro, segretario generale FIOM Genova

Come difendere i lavoratori da una crisi economica postpandemia che si annuncia senza precedenti? Durante gli Stati Generali il presidente del consiglio Conte ha parlato di riforma degli ammortizzatori sociali e la FIOM genovese, nei giorni scorsi protagonista dello scontro con ArcelorMittal, gli ha risposto con un’idea concreta che parla alle esigenze concrete di milioni di lavoratori, non solo metalmeccanici: dal capoluogo ligure infatti è partita la proposta di una cassa integrazione al 90% dello stipendio in tutti i settori. Un’idea che riflette in qualche misura una proposta più generale di politica dei salari, traducibile in risultati concreti se diventa oggetto di mobilitazione dei lavoratori, certo non se il sindacato resta nella sfera delle pressioni diplomatiche sulla politica. E’ quanto emerge dalle parole di Bruno Manganaro, segretario Generale della FIOM di Genova e membro del comitato centrale dei metalmeccanici CGIL, che ci spiega il ragionamento dietro la proposta lanciata nei giorni scorsi a latere di una mobilitazione di lavoratrici delle mense genovesi.

Qualche giorno fa la FIOM genovese si è unita a una manifestazione di lavoratrici delle mense davanti alla sede della Regione Liguria. Queste lavoratrici hanno raccontato che vivono con 260 euro al mese di cassa integrazione. Perché la FIOM ha deciso di partecipare a questa iniziativa?

La nostra partecipazione prima di tutto è un atto di solidarietà a delle lavoratrici che hanno avuto il coraggio di manifestare la loro rabbia. Alcune di loro lavorano nelle mense delle aziende metalmeccaniche e quindi hanno relazioni quotidiane con i delegati e gli iscritti della FIOM.

Inoltre hanno posto vari problemi che oggi sono assolutamente attuali: il tema di un ammortizzatore sociale precario – la loro cassa integrazione è incerta sia in termini di durata sia di quantità economica – e di come poter vivere con 250 euro al mese, quindi con un taglio pesante dello stipendio che già normalmente è insufficiente ad arrivare a fine mese.

Quindi la nostra è solidarietà ma anche fare i conti con la necessità di porre un problema che, con pesi e modalità diverse, riguarda tutto il mondo del lavoro.

Conte ha annunciato una riforma degli ammortizzatori sociali…

Il Governo annuncia un ridimensionamento della cassa integrazione usata in questi mesi.

Da un lato parla di riforma degli ammortizzatori sociali e di solito in questi anni si è utilizzata questa formula per peggiorare le condizioni e i diritti dei lavoratori e quindi la cosa preoccupa. Dall’altro si propone di dare incentivi alle aziende che non useranno la cassa integrazione. Una proposta pericolosa, che rischia di lasciare mano libera ai licenziamenti.

Un’azienda, infatti, rinuncia alla cassa integrazione se è più conveniente, cioè se può cancellare il costo di un lavoratore che per quel periodo considera inutile per la produzione e per i suoi profitti. L’incentivo quindi dovrebbe essere sostanzioso, altrimenti è inefficace. Il rischio molto concreto quindi è che alla fine vi sia un taglio netto dello strumento, che renderebbe più facili i licenziamenti.

Ritardi nel pagamento: qual è la situazione a Genova, di chi è la responsabilità e come si risolve il problema?

I ritardi nei pagamenti sono dovuti alla frammentazione degli strumenti e alle responsabilità di chi deve pagare. Il Governo si è dimostrato incapace di prevedere e intervenire per garantire quel poco reddito elargito attraverso gli ammortizzatori sociali.

A Genova nel settore metalmeccanico sono arrivate circa 750 richieste di cassa, ma solo in 350 casi è stato firmato un accordo sindacale con il vincolo dell’anticipo da parte dell’azienda. Questi sicuramente coprono numericamente il maggior numero di lavoratori e lavoratrici, ma diverse centinaia di dipendenti invece sono stati costretti ad attendere i tempi della burocrazia INPS e fondi che non si sbloccavano, restando per settimane senza salario.

Nella cassa integrazione ordinaria non esiste l’obbligo dell’anticipo da parte dell’impresa e nelle procedure attuali di ‘cassa covid-19’  l’INPS non ha neanche il potere di verificare l’incapacità economica delle aziende.

La cassa in deroga invece deve passare attraverso le regioni e i finanziamenti che queste ricevono, poi ci sono i FIS, fondi di integrazione salariale, legati a quanto versano le piccole aziende magari artigiane. Infine ci sono lavoratori che non hanno ammortizzatori sociali e devono attendere leggi e decreti speciali per vederseli attivare.

Già questa situazione dovrebbe essere oggetto di una rivendicazione sindacale: serve uno strumento per tutti, finanziato tramite un fondo a cui contribuiscono le imprese e i padroni. E’ quello che già avviene nelle aziende metalmeccaniche, ma non in tanti settori come il commercio, le piccole aziende, l’artigianato, la logistica e i servizi pubblici. Nei decenni precedenti lo scambio politico con questi settori d’impresa considerati ‘deboli’ nel mercato capitalistico fu rinunciare a far pagare loro i contributi sociali a favore dei lavoratori, inclusi quelli per la cassa. Il risultato è sotto gli occhi di tutti. Di fronte all’emergenza pandemia e alla prossima crisi economica gli strumenti sono farraginosi, incerti e non garantiscono un reddito dignitoso.

Quindi un ammortizzatore sociale unico per tutti…

Sì, uno strumento unico, un fondo economico pagato dalle aziende, dallo Stato e dai lavoratori – tra l’altro è utile ricordare che quello dei metalmeccanici, che funziona senza contributi statali, è in attivo – che copra il 90% del salario reale percepito da ogni lavoratore e lavoratrice. Questa crisi, ma in generale nessuna crisi deve essere pagata dai lavoratori.

Qualcuno direbbe che è fantascienza…

Funzionava cosi negli anni ’70-’80 e in seguito fu un decreto dell’allora ministro Salvi che intervenne pesantemente sulla copertura economica introducendo dei massimali: oggi la cassa ammonta all’80% dello stipendio ma se guadagni fino a 2159,48 euro lordi hai un massimale di 998,18€, se superi quella soglia arrivi al massimo a 1129,66, e sono importi tassati, per cui, tra massimali e trattenute, in realtà il taglio dello stipendio in media è del 40%. Ma col 60% dello stipendio non ci vivi.

La rivendicazione della cassa al 90% poi trascina con sé una rivisitazione e rivalutazione dell’indennità di disoccupazione, che, anche in questo caso, deve fornire una copertura maggiore rispetto all’attuale.

Inoltre è evidente che questo tipo di parola d’ordine pone di fronte al Governo e alle imprese l’obiettivo di una paga oraria minima fissata per legge. Se vogliamo che una cassa integrazione e un’indennità di disoccupazione legate a un rapporto di lavoro in essere o appena concluso diano un reddito dignitoso indipendentemente dal luogo di lavoro, dal contratto applicato e dalla sua durata, dal fatto che sei in una ditta in appalto o un dipendente della casa madre, bisogna fissare un salario minimo orario valido per chiunque lavori.

Questi sono obiettivi in grado di parlare a tutto il mondo del lavoro, di costruire solidarietà e innescare una più generale rivendicazione di salario e diritti contrattuali.

All’orizzonte c’è la fine del divieto di licenziamento e il sottosegretario Baretta ha parlato di cassa integrazione solo per i settori a rischio, anche se nelle scorse ore qualcuno ha detto cose diverse. C’è il pericolo di un’ondata di esuberi?

Il sottosegretario Baretta articola con maggiore precisione ciò che ha dichiarato anche il presidente del consiglio Conte: la cassa integrazione pagata dal governo non può continuare ed essere data a tutti e il blocco dei licenziamenti non può durare per tutti e per sempre. Quindi si ritorna alle classiche regole del mercato capitalistico, peraltro mai abbandonate: meno produzione e meno profitti determinano più licenziamenti

Si pensi alla siderurgia, all’elettrodomestico, alla meccanica, alla cantieristica, che dovranno affrontare enormi ristrutturazioni, alle piccole e medie aziende che non reggeranno tale crisi. I licenziamenti rischiano di essere la soluzione per molte imprese.

Diversi centri studi hanno fatto ipotesi sulla perdita di posti di lavoro in Italia, indicando cifre che arrivano attorno al milione di posti a rischio. E’ difficile prevedere i numeri, ma, di fronte a stime di diminuzione del PIL del 9%-11%, i licenziamenti purtroppo saranno una realtà.

Tra gli effetti sociali del lockdown, l’eventualità di una seconda ondata, una recessione già annunciata prima della pandemia e vertenze già aperte come quella dell’ILVA, che stagione ci aspetta dal punto di vista sindacale e che clima si respira tra i metalmeccanici?

Dalla paura per il virus stiamo transitando alla paura per il reddito e il posto di lavoro. I dati economici mondiali prefigurano un’enorme crisi, tanto che si mettono in discussione persino le politiche liberiste, annunciando debiti e migliaia di miliardi da mettere in moto per salvare profitti e rendite. Questo processo metterà in moto profonde ristrutturazioni aziendali: aggregazioni, fallimenti, innovazione tecnologica, riorganizzazione delle produzioni, licenziamenti e precarietà.

Nella FIOM in modo empirico si intuiscono questi processi e stravolgimenti, si percepisce che la prossima fase sarà molto complicata per lavoratori e lavoratrici, ma temo non si abbiano gli strumenti per affrontarli. Servono parole d’ordine semplici e generali, non un programma con la soluzione a tutti i problemi del mondo del lavoro, ma parole con cui rivolgersi alla classe dei lavoratori pensando alle loro esigenze elementari, non al ‘bene del paese’ inteso come valore supremo. E serve un sindacato che si prepari a reggere il conflitto nelle diverse aziende, ma anche a generalizzarlo estendendolo ad altre fabbriche e territori, non però in modo propagandistico, ma cercando di costruire concreti rapporti di forza. inoltre prima o poi bisognerà cercare di legare in qualche modo le esperienze di lotta che avvengono nei diversi paesi europei.

Questi dovrebbero essere elementi su cui dibattere e riflettere. Certo non aiuta una CGIL che sembra in stato confusionale e che fatica a individuare obiettivi e iniziative sindacali, per cui si rifugia nelle ‘nuove politiche di sviluppo’ o nel ruolo di suggeritore del Governo, tutte cose che non creano passioni e speranze e che, soprattutto, difficilmente mobilitano i lavoratori. I prossimi mesi potrebbero riservare sfide molto pesanti ai lavoratori, sia in termini di reddito che di occupazione. Per questo servono idee chiare e semplici, che parlino alla nostra classe e siano in grado di favorire e indirizzarne le mobilitazioni.

TAG: Bruno Manganaro, cassa integrazione, FIOM Genova, Salario minimo
CAT: Sindacati

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