Gestire le crisi sarà la cosa più politica che dovremo imparare a fare

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3 Maggio 2020

La crisi del Covid 19 ha posto una questione vitale: come combattere una minaccia esistenziale all’organizzazione sociale preservandone un pur minimo funzionamento? Si è trattato di un esercizio pienamente politico e chi invoca la supposta oggettività dei saperi scientifici e tecnici per formulare tali decisioni non ha compreso la posta in gioco (oppure ha compiuto la scelta, pienamente politica, di aderire a un discorso politico tecnocratico).

Dovendo restringere le libertà fondamentali, lo stato ha in qualche misura definito anche ciò che non può essere completamente ristretto, definendo nuove dimensioni spaziali e sociali della convivenza. Questa azione riguarda in tempi “di pace” popolazioni minoritarie ma significative – si pensi agli immigrati, ai carcerati come ad altre popolazioni “indesiderate” – mentre con il Covid ha investito la generalità della popolazione. Nel dover predisporre, limitare e riorganizzate la vita sociale lo stato ha poi anche manifestato esplicitamente il tipo di conoscenze e di rappresentazioni della società e del territorio che ritiene utili e legittime per assumere decisioni così gravi.

Una prima dimensione essenziale di queste decisioni è stata quella del territorio e della sua differenziazione in termini di comportamenti consentiti. In questo caso, lo stato ha sposato pienamente l’idea che il confine amministrativo fosse l’unico dispositivo efficace per predisporre la nuova organizzazione sociale. Nella fase acuta dell’emergenza, la mobilità è stata confinata entro il comune per i cosiddetti spostamenti di necessità quotidiana. Successivamente, con la fase 2, i confini regionali sono tornati ad essere importanti per la definizione della mobilità consentita.

All’adesione al principio del confine “amministrativo” – è il confine che conta – si è poi combinata quella al principio dell’uniformità dei comportamenti tollerati entro le unità definite da questi confini. Dopo i brevi esperimenti di zone rosse ed arancioni, nella fase 1 (come comprensibile) e nella fase 2 le norme sono state applicate in modo indistinto su tutto il territorio nazionale, nonostante la diversità in termini di penetrazione del contagio, capacità dei sistemi sanitari di farvi fronte, caratteristiche demografiche, livello di vulnerabilità sociale alla crisi economica.

Dall’8 Marzo, e per circa tre mesi se si arrivasse a fine Maggio senza cambiamenti, comuni sostanzialmente privi di contagi e comuni con il massimo dei contagi sono stati (e saranno) trattati esattamente nello stesso modo. Ovviamente il livello del contagio non è l’unica variabile che differenzia significativamente i territori. Tornando al ritorno del confine regionale, sappiamo che le regioni entro le quali sarà ora consentito la mobilità sono entità molto diversificate: alcune hanno la taglia di una provincia e sono scarsamente urbanizzate, altre hanno invece la taglia di un piccolo paese europeo e sono intensamente urbanizzate. Alcune hanno un’alta penetrazione tecnologica che ad esempio permette meglio la didattica a distanza, altre molto meno. E potremmo continuare con una lunga serie di differenze che si rendono sempre più evidenti con il procedere della crisi e che, a torto a ragione, non sono considerate come differenze rilevanti (e quindi le conoscenze che riguardano queste differenze sono considerate non pertinenti).

Anche la scelta iniziale dell’utilizzo dei codici Ateco per regolare la chiusura dei settori produttivi è stata significativa. Colpisce ad esempio che i Sistemi Locali del Lavoro non siano mai comparsi come strumento di analisi e di intervento, e si sia invece preferita una lettura a-spaziale di un sistema produttivo che invece come noto ha una grande varianza e specializzazione territoriale. Anche questo ha condotto a diversi e apparenti paradossi, è noto infatti che alcune delle aree più colpite abbiano avuto fin da subito livelli di partecipazione al lavoro – e quindi di mobilità – più elevati di aree viceversa meno colpite. Di nuovo si possono immaginare le ragioni di questa “cecità” spaziale: queste categorie di analisi spazialmente cieche hanno probabilmente permesso una dislocazione e dissimulazione di conflitti potenzialmente molto intensi. Differenziare nello spazio è un atto pienamente e visibilmente politico e molto probabilmente lo stato centrale temeva conflitti aperti con regioni forti, preferendo rimandare alle prefetture un governo di fatto dei settori produttivi attraverso il meccanismo delle deroghe (in termini molto meno visibili, e quindi meno conflittuali).

Questo peraltro ha permesso ad alcuni attori importanti di questa crisi, ad esempio la regione Lombardia, di non dichiarare mai la propria posizione sulle “riaperture” maturando così una sorta di rendita di posizione: non differenziando a suo “sfavore” il governo ha permesso alla regione di avere una posizione indistinta su cosa fosse la “priorità”: la salute oppure la produzione. E’ poi del tutto evidente, che a parti “inverse”, questa mancata differenziazione territoriale sarebbe stata probabilmente impensabile: la Lombardia non avrebbe mai permesso si chiudesse l’interezza della sua vita pubblica e una parte significativa del suo sistema produttivo se avesse registrato i livelli di contagio della Calabria. Circostanza che ci ricorda quanto il potere economico sia anche assai concreto potere politico e simbolico e che differenziare nello spazio a sfavore dei “forti” è quasi sempre più difficile che farlo a sfavore dei “deboli”.

Complessivamente, nel nostro caso quello che emerge è l’immagine di uno spazio frammentato ma trattato uniformemente. Un’altra ipotesi di governo spaziale della crisi – quella apparentemente percorsa da Francia e Spagna, ad esempio – era invece quella di uno spazio frammentato ma trattato difformemente: un sistema di territori fra loro insulari che progressivamente potessero “liberarsi” sulla base del declino dell’epidemia (anche da noi c’è differenziazione, ma in gran parte per l’attivismo competitivo delle regioni).  Il recente annuncio dell’uso di un sistema di indicatori complessi da parte del governo per regolare eventuali “chiusure” sembra essere, da questo punto di vista, l’estremo riconoscimento della necessità di una differenziazione sebbene in fase di “ritorno”. E anche della necessità di fondarla su conoscenze di una qualche natura (per depotenziare e invisibilizzare conflitti politici)

Infine, l’ultima dimensione essenziale di osservazione è quella del legame sociale consentito. La vita pubblica è stata, come noto, completamente sacrificata anche più di altri paesi europei (si pensi ad esempio alla chiusura dei parchi pubblici). All’approssimarsi della fase 2, l’assenza di un qualche programma pubblico per l’infanzia aveva già indicato la scelta di un modello di organizzazione sociale provvisionale fondato sostanzialmente sulla famiglia: il ritorno al lavoro di una parte della popolazione in assenza di servizi scolastici indicava inevitabilmente la necessità che la cura dei figli fosse affidata in molti casi alla famiglia stessa (e quindi, potenzialmente, ai nonni qualora vivessero nelle vicinanze). In questo scenario, gli anziani quale popolazione a rischio sarebbero stati sì esposti, ma protetti dalla relativa ristrettezza della cerchie sociale dei bambini (che non si vedono fra loro).

Questa scelta è stata poi confermata in termini più ampi nel quadro della cosiddetta “Fase 2”. Qui si è scelto espressamente di far coincidere la vita sociale “espressiva” con i legami parentali e si è perseverato in questo approccio nonostante le critiche.  Forse sarebbe stato più ragionevole indicare un numero massimo di persone frequentabili nelle forme previste – distanze, dispositivi  – anche perchè per seguire la logica formale del legame di sangue si è arrivati ad includere platee potenziali superiori al numero di amici che ciascuno di noi riterrebbe indispensabile al proprio benessere vedere. Ma questo avrebbe implicato un ribaltamento del paradigma: lo stato avrebbe dovuto decentrare all’individuo la scelta di costruirsi liberamente la propria cerchia sociale  ristretta entro un limite complessivo (sarebbero state linee guida, più che norme).

Questo approccio determina poi  iniquità molto evidenti nei confronti di settori vasti della popolazione – si pensi ai single che vivono in territori diversi da quello di origine o gli stessi immigrati senza nucleo familiare – che sono privi di questi legami e che dopo quasi due mesi di quarantena saranno costrette ad assumere comportamenti “illegali”. Più in generale colpisce che i legami sociali in presenza non sacrificabili non siano quelli non scelti bensì quelli ereditati. Si tratta in gran parte di una mera finzione, come ovvio: nessuno immagina che vi siano controlli sul grado di parentela – peraltro remota – delle persone cui si fa visita e nemmeno si immagina che vi siano controlli riguardo la casualità o meno di un incontro fra due amici (che magari lavorano anche nello stesso luogo) nello spazio pubblico.

Ovviamente, nessuno può sostenere che il compito cui si è trovato di fronte lo stato italiano fosse un compito facile. Ed infatti più che individuare responsabilità specifiche è interessante osservare come un intero sistema sociale abbia reagito a questa situazione senza precedenti. Il primo aspetto rilevante è il progressivo slittamento dell’obiettivo finale dal contrasto dell’epidemia al distanziamento sociale di per sé. In altre parole il principio che sembra aver animato l’azione pubblica è quello della sanzionabilità: allestire una serie di norme, come nel caso del regime dei congiunti, che non necessariamente indicassero i comportamenti migliori rispetto al fine ultimo – combattere l’epidemia – ma quelli più controllabili perché più in linea con il “potere di calcolo” degli apparati. Non è sorprendente: lo stato deve badare al suo potere ed alla verificabilità della sua efficacia quotidiana nell’esercitarlo. Tuttavia, il potere può essere esercitato in modi diversi e come sappiamo le forme più sofisticate di potere sono in grado di produrre effetti “a distanza”, magari non imponendo un preciso e dettagliato modo di comportarsi ma configurando un campo dell’accettabile e del desiderabile.

Il secondo aspetto rilevante è che lo stato sembra aver rinunciato ad usare lo spazio ed il territorio come una leva decisiva dell’organizzazione sociale in questa crisi: troppe informazioni necessarie, troppi squilibri di potere e interessi diversificati e troppa complessità da trattare e gestire da parte di apparati e di una classe politica indebolita e largamente privata di intelligenza collettiva. Il territorio – la cui varietà è insidiosa e piena di rischi per chi decide – é stato subito più che agito dall’azione pubblica nel corso della crisi. Questo ha determinato sicuramente dei costi sociali elevati ed il consolidarsi di posizioni di potere e di vantaggio che forse si potevano quantomeno temperare.

Questa non sarà l’ultima crisi di un secolo che si è già dimostrato di essere turbolento, e sarà bene prendere nota di come abbiamo reagito. Perché sempre di più il come gestirle – secondo quali criteri, sulla base di quali conoscenze – sarà la decisione più politica che un sistema sociale  sarà chiamato ad assumere. Altro che decisioni tecniche e conoscenze oggettive, qui siamo al cuore della politica.

TAG: Covid, politica
CAT: società

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