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Società

Il paradosso dei social network: la vita vera come strada salvifica

di Alberto Carocci
15 Febbraio 2019

Il declino della società odierna, individualista, mediocre e compulsiva, è in parte dovuto ai social network. Questi sistemi di comunicazione permettono a tutti di poter dire qualcosa. E questo qualcosa, spesso, è totalmente falso, sgrammaticato e pericoloso. Falso perché tante volte vengono condivise foto con didascalie totalmente inventate (una foto con una didascalia NON E’ una notizia), sgrammaticato perché l’italiano è spesso violentato (che shock leggere “io o” senza h), pericolose perché tante volte i soggetti coinvolti in queste notizie sono totalmente estranei alla didascalia stessa (ho visto foto con l’attore Willy Smith bollato come profugo) con tutte le conseguenze che questo comporta, come campagne di odio sul profilo del malcapitato condite di minacce, insulti e altre amenità. Non aiutano poi nei rapporti sociali, anche se di social network stiamo parlando. Chi fa un uso spasmodico di questi applicativi è distaccato dalla realtà, ha difficoltà ad interagire con gli altri e si sente più protetto nell’intimità della propria casa, del proprio smartphone, del proprio tablet, con “una finestra sul mondo”. Spesso c’è la volontà di richiamare l’attenzione, come chi si “tagga” all’ospedale, per far sapere ai suoi amici virtuali che qualcosa gli è successo. La spettacolarizzazione del dolore, sui social ma come anche negli altri media, sta avendo molto seguito. Il fatto di dire “ sono all’ospedale” significa, indirettamente, di voler essere supportati, di voler essere interrogati e di voler dire a tutti, “sto male, mi sono fatto male, datemi una parola di conforto”. La mancanza di attenzioni porta questo. Ci sono coppie che stanno insieme da decenni, nelle quali le attenzioni, anche le piccole attenzioni quotidiane, non ci sono più. Ci sono adolescenti che, non avendo un dialogo con i genitori, cercano conforto dai social network. Sono tanti i casi di “suicidi annunciati” e fortunatamente sventati grazie al pronto intervento di chi ha capito che qualcosa di molto brutto sarebbe successo a stretto giro. Da un lato, il disprezzo della vita (voglio farla finita) dall’altro, l’attaccamento alla vita (non voglio che la faccia finita). Facce della stessa medaglia social derivanti però dalla situazione reale. In questa vita vera non ci voglio stare ma lo faccio sapere nella vita effimera, nella vita virtuale. Ed è nella vita virtuale che viene gettata un’ancora di salvezza, bucando il monitor del computer o dello smartphone, facendo intervenire la vita reale. La salvezza, passa dai social network ma l’attuabilità della salvezza, passa per forza di cose dalla vita reale. Ed è la vita reale che ha portato il teen ager, ma non solo lui, alla ricerca del buio. Il paradosso, anche in questo caso è evidente. Vita reale che porta ad esternare un qualcosa di oscuro nella vita virtuale. Ma la salvezza arriva, sempre ed in ogni caso, dalla vita vera. La vita vera come strada salvifica della vita virtuale. La vita vera come salvezza dalla vita vera stessa e, allo stesso tempo, dalla vita effimera, filtrata e condivisa dei social network.

 

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