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Partiti e politici

Aristocrazia operaia e vera borghesia: quanto ci mancano in questo tempo barbaro

di «Ponti e Muri» di Stefano Jesurum
6 Maggio 2017

Voglia di aristocrazia. Non prendetemi per classista però. Non sono né un sociologo della politica né un nostalgico di qual si voglia ancien régime. Ma il degrado in cui siamo immersi – e di cui sono principalmente responsabili proprio le élite, (sembra un controsenso eppure, a mio avviso, non lo è) – sta lì a farci rimpiangere lʼaristocrazia operaia da un lato e la grande borghesia (davvero) illuminata e progressista dallʼaltro. Diciamolo: cʼè in giro unʼaria inquietante, sa di fascismo nascente, fa paura.

Non sono le “masse popolari” a (spesso giustamente) ribellarsi, sono invece le moderne plebi a incazzarsi, che è cosa ben diversa. Chi ha lʼetà per ricordare le famiglie operaie della Torino comunista o aclista credo capisca di che cosa sto parlando. Chi non ha quellʼetà e quel mondo non lo ha conosciuto oppure studiato guardi i rozzi e razzisti adepti di Salvini o della Meloni, osservi lʼignoranza complottarda dei grillini, si soffermi ad analizzare la fogna della corruzione diffusa.

Sentimenti passionali, quelli che esprimo, suscitatimi non da saggi di politologia bensì dalla lettura di un bel e non recente libro di Amin Maalouf (I disorientati, Bompiani, 2012). E in particolare da un passaggio clou: «(…) Ho sempre provato avversione sia per i ricchi, sia per i poveri. La mia patria sociale è la via di mezzo. Né gli abbienti, né i rivendicatori. Appartengo alla frangia mediana che, non avendo né la miopia dei facoltosi né la cecità degli affamati, può permettersi di posare uno sguardo lucido sul mondo».
​I disorientati è un bellissimo libro contro la guerra (nella fattispecie parla del Libano, ma è assolutamente universale). E non a caso Maalouf lo apre con una citazione di Simone Weil: «Tutto ciò che è sottoposto al contatto della forza viene insozzato, qualunque sia il contatto. Colpire o essere colpiti è una sola e medesima lordura».

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