La copertina del libro La Costruzione di un amore, pubblicato per Lindau da Fabio Cavallari

Famiglia

La costruzione di un amore, storia di una famiglia adottiva: il libro di Fabio Cavallari

15 Novembre 2025

Pubblichiamo per gentile concessione dell’editore e dell’autore, il nostro Fabio Cavallari, l’introduzione al libro “La costruzione di un amore, storia di una famiglia adottiva”, pubblicato da Lindau.

La famiglia non nasce da un atto formale, ma da un gesto. C’è un momento preciso in cui una famiglia nasce. Non è il giorno della firma di un’adozione, né quello della prima notte insieme. È un momento più sottile, impercettibile, quasi inosservato. Accade tra le pieghe della quotidianità, in un gesto che sembra piccolo ma che contiene tutto. Una mano che si posa sulla spalla, un piatto lasciato da parte per l’ultimo che arriva, uno sguardo che non cerca conferme eppure trattiene, senza bisogno di parole. La famiglia non è una costruzione immediata, non è un’entità data. È una tessitura, un intreccio di fili che si annodano e si allentano, che si perdono e si ritrovano. È fatta di attese, di resistenze, di passi che si cercano. Non sempre si riconoscono subito. Alcuni legami sono come semi. Impiegano tempo a radicarsi, trovano terreno fertile nella fatica condivisa, nell’abitudine che si fa gesto d’amore. Ogni famiglia, ogni relazione, porta con sé la propria sto ria, e la sua costruzione non è mai lineare, mai senza scosse. Ogni volta che il cuore si apre per accogliere un altro, si corre il rischio di disegnare una mappa che non somiglia a quella che avevamo immaginato. Ed è lì che si delinea una nuova geografia dei sentimenti. Ci si perde e ci si ritrova, si fa fatica a riconoscersi, ma la bellezza sta proprio nel fatto che si è lì, insieme, a costruire passo dopo passo, giorno dopo giorno.

Non ci sono mappe facili, né percorsi già scritti, se non quelli che ognuno di noi sceglie di tracciare nei propri gesti, nelle proprie azioni, nei piccoli, imperfetti momenti che compongono la vita di ogni famiglia. Il viaggio di Marta e Mattia, ad esempio, non è mai stato quello che avrebbero immaginato. L’incontro non era quello di due mondi che si fondono perfettamente, ma quello di due storie spezzate che si incontrano e si rimettono insieme. Non è mai stato un cammino semplice, ma un faticoso incrociarsi, un intreccio di esperienze che si mescolano e si trasformano con il tempo. Eppure, proprio in questa difficoltà, è nato qualcosa di più forte, qualcosa che supera l’i dea stessa di famiglia come costrutto ideale. Una famiglia non è un luogo già predefinito, ma una realtà che cresce e si forma con l’accoglienza, con il rischio di non sapere cosa accadrà domani. Non è un’entità stabile, ma una costruzione continua, un divenire che si definisce nelle piccole cose quotidiane, nei momenti che sembrano insignificanti ma che, guardandoli da vicino, si rivelano come il cuore stesso della relazione. Mi ricordo di quando sono arrivato a casa di Marta, in un pomeriggio di fine inverno.

Scrivere non è mai semplice. Ma quando entri nella storia di qualcuno, ti accorgi che anche le parole sono una forma di cura. Sul tavolo, il caffè ancora caldo e una pila di documenti vari. Il suo sorriso non cercava approvazione, ma esprimeva una sorta di serenità silenziosa, come se volesse dirmi: «Questa è la mia storia, ma ora è an che tua». Era come se stesse aprendo un capitolo di sé stessa, senza paura di essere giudicata, ma semplicemente vivendo quello che era. E in quel momento ho capito che non avrei mai potuto raccontare una storia come la sua se non l’avessi vissuta nel profondo. Scrivere questo libro non significa esserne io il protagonista. Significa dare voce a una storia che è più grande di me, restituire parole che portano con sé il peso e la bellezza di una maternità che non è mai stata semplice, ma che si è costruita nel tempo, tra le difficoltà e la fatica di ogni giorno. L’amore che ha dato vita a questa famiglia non è mai stato un amore che si impone. Non è stato un amore che ha cerca to di modellare le cose a sua immagine, ma un amore che ha imparato ad ascoltare, a dare spazio. La famiglia di Marta e Mattia non è un progetto che ha preso vita con il solo obiettivo di soddisfare un desiderio. Non è stata una scelta fatta per colmare un vuoto, ma per accogliere e scoprire insieme che l’amore è una continua offerta di sé, senza aspettative, senza risposte preconfezionate. Ogni figlio che è arrivato, Giovanni, Samuele, Likuta, ha portato con sé una storia di versa, un racconto che non si incastrava immediatamente con quello che avevano vissuto i genitori. Eppure, proprio in questa discontinuità, si è costruita una famiglia solida e vera, che non è perfetta, ma che è riuscita a resistere e a rimanere nel tempo, con tutte le sue crepe e le sue meraviglie.

La genitorialità, quella che nasce nell’adozione, non è mai un atto che si compie una volta per tutte. È un processo che non finisce mai, che non si conclude mai. Non si tratta solo di accogliere, ma anche di essere pronti a essere accolti. È la consapevolezza che non si può sempre avere il controllo, che non si può colmare ogni distanza, che non sempre si hanno le risposte giuste. Ma è anche la consapevolezza che ogni legame si costruisce, ogni giorno, con pazienza, con dedizione, con la certezza che non esistono figli adottivi o figli naturali. Esistono figli. Esiste un legame che si costruisce giorno dopo giorno, con il cuore aperto, con il corpo stanco ma pronto a rimanere. Ogni famiglia è fatta di attese, di piccoli gesti che, giorno dopo giorno, si sedimentano come radici nel terreno. La tavola apparecchiata non è solo un rito, ma un simbolo del riconoscimento reciproco, un incontro che non ha bisogno di parole. Non è la perfezione che ci rende una famiglia, ma la disponibilità a esserci, con tutti i limiti, le incertezze, le fragilità. La famiglia che si costruisce non è mai quella che avevamo immaginato, ma quella che diventa parte di noi mentre la creiamo.

Non è una scelta finale, ma un viaggio che ci segna, che ci cambia, che ci costringe a guardare noi stessi e gli altri da una prospettiva nuova. E forse, alla fine, ciò che conta non è il posto fisico in cui siamo, ma il fatto di esserci. Di essere lì, pronti ad accogliere e a camminare insieme, senza fretta, senza l’ansia di arrivare a una meta. Per ché, come nella scrittura, come nella genitorialità, non esiste mai un punto di arrivo definitivo. Esiste solo il cammino, e la bellezza sta nell’imparare ad accoglierlo. La genitorialità è un viaggio di continua trasformazione. Itaca, per Ulisse, è il futuro, è ciò che ancora non è. Se la raggiungi troppo in fretta, se la riduci a una meta concreta, perde la sua funzione. Itaca non è un luogo, è il desiderio che ci fa camminare. È il segreto che ci fa scrivere. È il pensiero che ci fa esistere. Questa visione di Itaca, che Costantinos Kavafis ci regala nella sua poesia, ci parla non solo della meta, ma soprattutto del viaggio. Nel suo celebre verso – «Devi augurarti che la strada sia lunga» – ci invita a immaginare il percorso come una lunga strada, fertile di avventure ed esperienze, dove il punto d’arrivo non è mai l’unico scopo, ma la crescita stessa, la trasformazione che avviene lungo il cammino.

Itaca non è un luogo fisico da raggiungere, ma una condizione mentale e spirituale che si svela solo vivendo il viaggio, con le sue sfide e i suoi imprevisti. Come in un percorso di genitorialità, dove non si cresce solo per raggiungere una meta definita, ma per essere trasformati dai figli, per imparare da loro tanto quanto loro imparano da noi. Si è spesso portati a pensare che un genitore abbia il compito di insegnare, di guidare, di indicare la strada. Eppure, forse la verità è che sono i figli a trasformare chi li cresce. L’a more che un genitore offre non è un gesto unilaterale. È un movimento che va e ritorna, un equilibrio che si costruisce ogni giorno, senza mai cristallizzarsi in un modello definitivo. Nel tempo, impariamo che un figlio non è qualcuno da proteggere per sempre, ma qualcuno da accompagnare nel suo essere altro da noi. Che l’amore più grande non è quello che trattiene, ma quello che lascia spazio. Che l’essere ma dre o padre non è una certezza, ma un dialogo in continua evoluzione. Questa storia lo racconta con forza. La famiglia non è un luogo dato, ma un processo. Non è un’idea astratta, ma una realtà che si costruisce nei gesti, nelle parole e nei silenzi. Che sia una famiglia adottiva o biologica, non fa differenza. Ogni legame si nutre della stessa verità: si resta genitori solo se si è disposti a farsi cambiare dai figli almeno quanto loro cambiano con noi. Forse, alla fine, la genitorialità è proprio questo. Non l’i dea di completare qualcuno, ma la capacità di accogliere, con tutte le domande, le imperfezioni, le incertezze. E se esiste un’eredità più grande da lasciare ai figli, non è nelle risposte che sapremo dare loro, ma nella possibilità di sentirsi sempre liberi di cercarle.

In questo senso, la genitorialità non è un traguardo. È un percorso che ci costringe ad aprirci, a riflettere, a cambiare, senza mai sapere con certezza cosa troveremo alla fine. La verità non sta nell’arrivare a una forma definitiva di «genito re ideale», ma nel coraggio di attraversare la trasformazione che ogni legame porta con sé. Perché essere genitori è, in effetti, un viaggio continuo, e in quel continuo diventare c’è tutta la verità del nostro essere umani. Ci sono storie che non si scrivono per spiegare, ma per re spirare. Perché la parola, quando si lascia abitare, non istruisce, non impone, non giudica. Ma si fa spazio. E ogni spazio, se accolto, cambia forma a chi lo attraversa. Questo libro non nasce per offrire risposte a chi cerca metodi o soluzioni. Nasce da un gesto più semplice. Un gesto di restituzione. Come quando, dopo un viaggio lungo e accidentato, ti fermi a guardare la strada percorsa. Non per nostalgia. Ma per gratitudine. Gratitudine per ciò che ha ferito, per ciò che ha salvato, per tutto ciò che è stato attraversato senza sapere come sarebbe andata a finire. Non c’è una pedagogia dell’adozione, né una formula per rendere perfetta una famiglia. Ma c’è una postura possibile: quella di chi sceglie di restare. Di chi abita lo spazio della relazione senza pretendere che l’altro si adegui, senza riscrivere la sua storia. Di chi accetta il mistero di ogni incontro. Chi legge, forse, non si troverà dentro le stesse situazioni. Ma può riconoscersi nell’essere chiamato, ogni giorno, a scegliere. A esserci. A stare. E forse è proprio qui, in questa scelta senza garanzie, che si annida la forma più concreta dell’amore.

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