Religione
Eremita per ritrovare se stessa, storia di suor Michela e di 25 anni di ricerca e scoperta
Il racconto di una missionaria passata dall’impegno nel sociale alla solitudine di un eremo di collina dove ha rinnovato il voto di fede e scoperto una nuova dimensione esistenziale
Il suo tempo lento suor Michela lo ha scelto 25 anni addietro, andando a vivere da eremita in un casolare sperduto nelle colline lombarde. Sola con sé stessa, ma, come ama ripetere, guidata dalla fede, senza avvertire mai il senso di solitudine.
È un vulcano suor Michela – il suo e gli altri nomi che leggerete sono di fantasia – , l’emblema della determinazione. A ripercorrere la sua storia si comprende quanto nel coraggio delle idee, che domina la sua esistenza, ci sia la vera rivoluzione, quella che aiuta a “viversi intensamente e crescere anche nell’ascolto dell’altro”. L’eremo visto sotto queste lenti diventa quasi l’appendice di una esistenza vissuta in profondità, con il coraggio che l’ha sostenuta anche nelle difficoltà incontrate in tanti anni di isolamento. Lontano da quella che può apparire come una scelta di fuga dal mondo si nasconde in realtà un travaglio interiore che a 53 anni l’ha portata a “sentire di non essere completa nella fede e di dovere fare in modo che il vangelo iniziasse a lavorare nel silenzio”.
Eppure, guardando a ritroso nel suo passato, in quella che può definirsi la prima vita, si ritrova una esistenza costellata di relazioni e impegno sociale. Lungo la sua storia c’è un ponte ideale che unisce l’eremo e il silenzio che lo avvolge all’immagine di un uomo, suo padre, che lavora i campi, emblema di un “amore contadino” semplice, impregnato di fatica e valori.
Siamo all’origine, nei primi anni 50, già allora suor Michela mostra i primi tratti di un carattere determinato costretto presto a scontrarsi con la madre, di orientamento comunista, che si oppone alla sua scelta di prendere i voti arrivando a negarle il saluto. Parlare del genitore ancora adesso fa vacillare la sua voce restituendo tutto il travaglio di quegli anni, più di nove, vissuti nel completo distacco per approdare a una faticosa riconciliazione, risultato, come lei dice, di un “amore incondizionato ma anche dell’affermazione di una libertà di scelta che non può consentire ai genitori di interferire nella vita dei figli”.
Di lì a poco saranno anche le ingiustizie a sollecitare l’innata vocazione al prossimo della giovane religiosa, dentro le case di cura in un primo tempo e nella sopravvivenza difficile nelle baracche del sud Italia, colpite dal terremoto a fine degli anni 60. Le immagini di quelle epoche tornano insistentemente nei ricordi: lo sfondo nel primo caso è la sofferenza degli anziani di una casa di cura dove inizia a prestare la sua opera. La prima frontiera di una missione che la introdurrà nel dolore e nell’aiuto gratuito, ma anche nelle incoerenze di chi, tra le colleghe, riservava maggiori attenzioni agli ospiti più facoltosi in un sistema che lei ha contestato senza troppo imbarazzo. Parecchie contraddizioni umane e, spesso, rifiuti coraggiosi come quello vissuto nel sostegno alle popolazioni colpite dal sisma, che ripartivano dalle macerie, alle quali suor Michela e le altre missionarie “aprivano gli occhi, rispetto alle speculazioni criminali legate alla ricostruzione”. Il “rumore” del bene che presto nelle comunità locali ha creato diversi mal di pancia ai quali è seguito un rientro nella realtà ecclesiastica del nord Italia, a Milano, per spostarsi nuovamente nel meridione, con l’intermezzo di diverse esperienze internazionali.
La narrazione riporta ai primi anni del duemila. Anche se all’apparenza la sua esistenza piena la appaga, suor Michela capisce che è arrivato il tempo di sé stessa, quello della preghiera che lavora e scava nell’anima. È l’esordio del silenzio dopo anni di rumori esterni. Il secondo capitolo di vita riparte da un eremo attiguo a una chiesetta del quindicesimo secolo nelle colline lombarde, lo stesso luogo che dal 600 all’800 era stato abitato da quelli che nella vulgata locale chiamano i rumiti, gli eremiti.
Ai margini dalla modernità dei centri urbanizzati suor Michela inizia una vita scandita nei tempi, senza rumori di fondo ma più piena, come lei racconta, nella preghiera, nei lavori agricoli che la riportano al suo passato e anche nell’ascolto di chi all’eremo arriva per chiedere una parola di conforto. Storie diverse, intrise di realizzazioni individuali ma molto spesso di sofferenza, che suor Michela ascolta con una dimensione di fede rinnovata, la stessa che la spinge a dire di “essere più aperta agli altri oggi che quando batteva in prima linea le piazze affollate della missione”.
I ricordi dei tanti che sono passati dall’eremo riportano a Giuliana, la donna che bussa alla porta di suor Michela per comunicarle la volontà di suicidarsi. La religiosa, pur nell’apprensione, prova ad ostentare sicurezza e dopo un lungo confronto consiglia alla donna di appuntare su un foglio gli aspetti positivi della sua esistenza. La ritroverà casualmente in un ospedale dopo mesi passati a pregare, a ripensare al destino di quella donna e, lei, la ringrazierà per il consiglio che l’aveva aiutata a ritrovare la forza perduta.
Giuliana, poi Gianni, il tossicodipendente sfiduciato, e molti altri che chiedono ascolto per problemi familiari ed esistenziali. E lei, suor Michela, sempre lì, a pregare e lavorare nel silenzio, aggrappata a quel “tutto della propria esistenza che le basta”, nel solco del messaggio delle nozze di cana del vangelo di Giovanni, il suo preferito, che recita: “fate quello che lui vi dirà”. La fede che ritorna anche parlando del mondo che ci circonda nel quale, secondo lei, le guerre e le storture sociali sono il risultato dell’assenza di quella pienezza che ha cercato in tutta la sua esistenza.
La certezza ritrovata e pochi rimpianti come quello di “non amare abbastanza le persone per ciò che sono”. Fede ma anche umiltà e affermazione di valori, messaggi in definitiva universali, che avvicinano a un mondo, il suo, che appartiene appieno a “chi ha il coraggio di amare con gioia”.
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