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Da Jerry Buss a Donald Trump, dallo Showtime all’era del risentimento

Con la famiglia Buss i Los Angeles Lakers divennero l’emblema dell’America ottimista degli anni Ottanta. Quarant’anni dopo, Donald Trump ne incarna il rovescio: la stessa estetica del successo, ma alimentata dal rancore.

22 Ottobre 2025

Il campionato NBA che apre il sipario stanotte è il primo da 46 anni senza la famiglia Buss al timone dei Los Angeles Lakers. La maggioranza delle quote è stata venduta a Mark Walter, amministratore delegato di TWG Group, una holding con molteplici interessi nello sport, come la squadra di baseball dei Los Angeles Dodgers e il Chelsea in Premier League. Per insediarsi alla guida della franchigia giallo-viola, Walter ha pagato 10 miliardi di dollari, la cifra più alta mai versata nella storia degli sport professionistici americani.

Strano a dirsi per una Lega che genera introiti miliardari, attira i migliori giocatori del mondo e vende il proprio prodotto agli appassionati dell’intero pianeta, alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, la NBA era sulla soglia del fallimento: le partite dei playoff venivano trasmesse in differita, le stelle non accendevano la fantasia dei tifosi e la piaga della cocaina incombeva su tutto il movimento. Soprattutto, sembrava mancare un’idea forte cui aggrapparsi. L’avvento del capostipite Jerry Buss segnò un deciso cambio di rotta: i Lakers, che erano da sempre fra i più forti del lotto ma avevano perso otto delle ultime nove finali disputate, si incamminarono sul sentiero della gloria e la NBA intravide un piano di rilancio. Il programma di Buss, banale ma vincente, prevedeva di trasformare il gioco in uno spettacolo. Il pubblico avrebbe dovuto affollare gli spalti per un’esperienza di intrattenimento che andava oltre la partita. Da qui vennero le band e la musica assordante dagli altoparlanti, le feste nei box extra-lusso incastonati sulle tribune dove si accomodava il bel mondo californiano e anche le Laker girls, le cheerleader più talentuose e sexy d’America, che divennero un brand a sé stante: «Ho sempre pensato che le partite fossero fantastiche, ma l’atmosfera intorno era un spenta e noiosa, per questo ho voluto ravvivarla un po’», commentò una volta Buss.

Le Laker Girls supportano la squadra di Los Angeles durante le partite casalinghe, ma si esibiscono anche in molti altri eventi e sedi.

La scenografia fu completata dalle star hollywoodiane, per cui il Great Western Forum, il palazzetto dei Lakers, diventò una tappa obbligata di auto-promozione. Non si trattava in effetti di una pensata rivoluzionaria, dato che già negli anni ‘60 Dean Martin, Bing Crosby o Doris Day si lasciavano scorgere fra la tifoseria, ma Buss ne fece uno show nello show. Attori, attrici, cantanti e personaggi famosi si sottoponevano a una defatigante lista d’attesa per sedersi a bordo campo, manco a dirlo al prezzo di qualche migliaio di dollari. Da lì potevano scrutare la fronte imperlata di sudore di Jamaal Wilkes, Byron Scott e James Worthy, e al contempo offrirsi allo sguardo dei cacciatori di celebrità. Frequentatori abituali erano Dustin Hoffman, Dyan Cannon, Dennis Hooper e Ben Stiller. E poi c’era Jack Nicholson, all’apice della carriera e con le giacche sgargianti sfoggiate in “L’onore dei Prizzi”, che calamitavano più inquadrature di una schiacciata di Kareem Abdul-Jabbar.

La presenza di Jack Nicholson a bordo campo era spesso uno spettacolo nello spettacolo

Ovviamente, senza un cast d’eccezione sul parquet tutto sarebbe stato vano. Qui fu la fortuna ad aiutare il progetto di rinascita, poiché L.A. vinse alla monetina il diritto alla prima scelta dei migliori prospetti universitari e nel giugno 1979 chiamò Earvin Magic Johnson. L’arrivo di Magic, che Buss mise sotto contratto per 25 anni e 25 milioni di dollari, fece compiere alla squadra il definitivo salto di qualità e produsse uno sfavillante stile di gioco, tutto imperniato sull’atletismo, la velocità e il contropiede: era nato lo Showtime. Il mosaico dei Lakers più fascinosi di sempre si completò con l’allenatore Pat Riley, giunto a soli 35 anni sulla panchina dei californiani con modalità almeno insolite e senza dubbio titolare del più elegante guardaroba mai indossato in uno stadio. Se da “American gigolò” in avanti, Richard Gere era stato il più irresistibile testimonial di Giorgio Armani nell’industria cinematografica, gli elegantissimi completi di Riley ne fecero l’assoluto riferimento per la casa di moda milanese nel sistema dello sport americano. Di suo, il coach dei Lakers ci mise un impeccabile aplomb e una folta capigliatura impomatata che gli davano in ogni momento l’aura di un broker di Wall Street.

In quegli anni, i giallo-viola prevalsero sui tradizionali rivali dei Boston Celtics guidati da Larry Bird e intascarono ben cinque titoli. Con Jerry Buss ancora sulla plancia di comando, ne sarebbero venuti altri cinque all’alba del nuovo millennio, grazie all’insuperabile duo formato dal compianto Kobe Bryant e da Shaquille O’Neal. Nel 2013, alla morte del patron, le quote di maggioranza del team furono equamente suddivise fra i sei figli. Al termine di una prevedibile faida familiare, Jeanie – già predestinata dal padre e che la nuova proprietà mantiene oggi come presidente – emerse come sola responsabile della franchigia, che sotto il suo controllo si è aggiudicata un ultimo anello nel 2020.

LeBron James, Magic Johnson, Shaquille O’Neal, Kobe Bryant e Kareem Abdul-Jabbar sono le stelle più luminose ingaggiate dai Buss

Se si osserva retrospettivamente la parabola del fondatore, è arduo resistere alla tentazione di tracciare un parallelismo con un altro tycoon, che si fece strada negli stessi anni. Jerry Buss era nato nel 1933 e con un dottorato in chimica aveva insegnato all’Università della California del Sud, prima di investire un piccolo gruzzolo nelle costruzioni. Nel 1979, era a capo di un impero che amministrava oltre 700 immobili, che gli fruttarono un cospicuo prestito dalle banche con cui comprò i Lakers. Nello stesso periodo, grazie alla leva del debito e ad analoghe speculazioni immobiliari, il più giovane Donald Trump si iscrisse al club dei milionari newyorkesi, che lo ghettizzarono a lungo come un rozzo e arrogante parvenu. Entrambi avevano le loro debolezze: combattevano una precoce calvizie con spericolati riportini biondo platino e si accompagnavano a splendide modelle, che restavano giovani mentre loro incanutivano. Buss si separò dalla moglie JoAnn che gli aveva dato quattro figli e all’epoca dello Showtime divenne intimo di Hugh Hefner, l’editore della rivista Playboy, e a ogni partita si presentava con una pin-up diversa. Trump provò ad accrescere il suo ascendente scalando la NFL, la lega di football, ma fu respinto con perdite. Comparve sulla copertina di Playboy insieme a una modella discinta e vi rilasciò una lunga intervista, dichiarando che non avrebbe mai corso per la Casa Bianca, a meno che non avesse visto il suo paese andare a rotoli. Nel caso avrebbe vinto sicuramente e come prima cosa avrebbe imposto dazi sulle Mercedes e sui prodotti giapponesi.

Trump comparve sulla copertina di “Playboy” nel 1990, assieme alla playmate Brandi Brandt

Per entrambi, il potere poggiava su pilastri materiali e immateriali. L’approccio di Buss era suadente e coinvolgente, strizzava l’occhio all’edonismo dei ricchi ma prometteva storie ispirazionali a quanti speravano di realizzare il sogno americano. Trump, aggressivo e polarizzante, fu sospinto in alto dalla voglia bruciante di far ingoiare ai suoi detrattori lo sdegno con cui l’avevano accolto fra le élite.

Se Buss rappresentava un capitalismo mondano e seduttivo, che regalava a tutti il sogno comune dello Showtime e del sorriso smagliante di Magic, Trump ha riunito gli Stati Uniti intorno al risentimento e a un sordo desiderio di rivalsa. Se l’America di Buss voleva vedersi bella, quella di Trump preferisce mostrarsi arrabbiata e a guardarsi indietro, i Los Angeles Lakers, nel loro spensierato e superficiale entusiasmo, acquisiscono quasi i contorni di una perduta età dell’innocenza.

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