Badoglio, il re tentenna dell’armistizio del ’43

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20 Maggio 2023

Il 3 settembre 1943, in una località presso il comune di Cassibile, in provincia di Siracusa, il generale Giuseppe Castellano, su mandato del Capo del governo Pietro Badoglio, e il generale Walter Bedell Smith, per conto del comandante in capo delle truppe alleate generale Dwigth Eisenhower, firmavano quello che fu successivamente definito “armistizio breve”, definito così perché conteneva le sole condizioni militari della resa mentre rinviava ad un successivo atto, “armistizio lungo” – che sarebbe stato firmato il successivo 29 settembre a Malta – le formule più minuziose, politiche e amministrative – che comprendevano anche la consegna agli alleati dell’ex dittatore Benito Mussolini e la revoca delle leggi razziali che Badoglio si era guardato dall’abrogare – , di attuazione dello stesso armistizio.

La firma dell’armistizio, nonostante un’apparente cordialità, si svolse in un clima di grande diffidenza, quello degli alleati nei confronti dell’Italia, a cui corrispose altrettanta ambiguità da parte del governo italiano.

C’è, infatti, da precisare che il governo Badoglio fosse stato costretto a firmare l’armistizio come risposta alla minaccia alleata di dare corso a bombardamenti a tappeto delle città italiane, Roma compresa. Il generale Eisenhower aveva infatti fatto sapere che erano pronti a decollare dagli aeroporti africani ben cinquecento bombardieri per piegare le ultime resistenze italiane.

Badoglio aveva fatto presente le criticità che sarebbero derivate alle truppe italiane dislocate in territori lontani dalla comunicazione immediata dell’armistizio ed era riuscito a strappare agli Alleati qualche giorno per approntare quanto necessario ad evitare paventati traumi. Ci si accordò, infatti, perché l’annuncio venisse diffuso il successivo l’8 settembre.

C’è da dire, tuttavia, che lo stesso Badoglio nonostante la firma non fosse del tutto convinto avrebbe voluto allontanare ancor di più la data dell’annuncio ufficiale.

Ne è prova evidente un episodio, poco conosciuto dai più, che mostra come l’ambiguità e l’incertezza del governo italiano fosse più che un’illazione.

Nel pomeriggio dell’8 settembre, cioè poche ore prima dell’annuncio, venne infatti convocato a Roma un Consiglio della corona, al quale non partecipò re Vittorio Emanuele, per stabilire il da farsi.

Sottintesa era  la scelta se smentire completamente gli accordi con gli Alleati e, quindi, assumersi la responsabilità di venir meno alla parola data o confermare l’accordo.

“Per fortuna – scrive Claudio Pavone, fu una tesi che non prevalse, ma il semplice fatto che potesse essere discussa è un fatto di per sé indicativo”.

Proprio per spezzare quel cerchio ambiguo che stringeva le autorità italiane, Eisenhower, che “si era rotto le scatole”, fece circolare in modo informale la notizia della firma dell’armistizio costringendo il Capo del governo italiano ad annunciare ai microfoni dell’Eiar, alle ore 19,42, che “«Il governo italiano, riconosciuta la impossibilità di continuare la impari lotta contro la soverchiante potenza avversaria, nell’intento di risparmiare ulteriori e più gravi sciagure alla Nazione, ha chiesto un armistizio al generale Eisenhower, comandante in capo delle forze alleate anglo-americane” e aggiungeva che la richiesta era stata accettata.

L’indomani mattino, alle ore cinque, la famiglia reale e lo stesso capo del governo, su pressante richiesta dei governi alleati – una richiesta giustificata dalla necessità di avere un interlocutore legittimato a rappresentare la continuità dello Stato – e prima che i tedeschi occupassero la capitale, lasciavano precipitosamente Roma per trovare rifugio nel sud del Paese, ormai sotto il controllo degli angloamericani.

Quanto accadde in quei giorni dimostrò, sempre che ce ne fosse stato bisogno, come superficialità e improvvisazione fossero la cifra distintiva della classe politica che, almeno fino al 25 aprile aveva in mano le redii dello Stato.

 

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CAT: Storia

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