Ferruccio Parri, basta la parola

29 Dicembre 2023

L’invito che Andrea Ricciardi formula in questo suo libro – Ferruccio Parri. Dalla genesi dell’antifascismo alla guida del governo (Biblion) – è riprendere in mano un capitolo della storia italiana, quello dell’antifascismo, e cercare di analizzare le molte cose che stanno dentro alla storia di una generazione sconfitta.

Una generazione che all’inizio degli anni ’20 si misura con la dittatura; poi con l’egemonia totalitaria tra anni ’20 e metà anni ’40; poi che progetta una nuova stagione di democrazia; poi che vince la battaglia sul campo; che, infine, si trova politicamente al margine.

Non è la prima volta che questo è il tema anche nelle voci protagoniste di allora.

Vittorio Foa lo affrontato significativamente molte volte, soprattutto in due momenti: quando ha tentato di dare conto di un lungo secolo – sono le pagine di Questo Novecento (Einaudi) –  e successivamente nelle pagine inquiete nel confronto con Carlo Ginzburg (Un dialogo, Feltrinelli) laddove insiste sul fatto che le azioni di ciascuno, le decisioni, in breve gli atti, non sono mai completamente liberi, ma sono il risultato di un palinsesto in cui si decide d giocare. Significa che la distanza del tempo può indurre a professare la coerenza, ma molto più proficuo, istruttivo, e propositivo misurarsi sempre con le proprie contraddizioni e dunque sottrarsi al fascino di costruire un monumento di sé in vita.

Per molti aspetti il profilo della vicenda di Ferruccio Parri che sta al centro di queste pagine (compresa tra Prima guerra mondiale e caduta del governo Parri nel novembre 1945) si presenta come un parallelo di quelle questioni messe a tema da Foa.

Il tema è come si ripercorre il passato tentando di fornire un quadro coerente e responsabile delle scelte, delle rinunce e anche delle sconfitte, senza tuttavia abbandonare il campo.

 

Andrea Ricciardi compone una biografia della formazione culturale e politica di una figura pubblica che inizialmente, prima ancora della Prima guerra mondiale, avverte la necessità di una riforma della politica ma ritiene che quella riforma sia possibile attraverso le scelte di un cento intellettuale che deve assumersi il compito di pensare un paese attanagliato dalla burocrazia, avvinto dal trasformismo, “inceppato” e “bloccato” dai propri vizi.

Sono gli anni in cui in Italia crescono le riviste degli intellettuali (“La Voce” di Prezzolini, a cui Parri collabora, ma anche “l’Unità” di Salvemini una figura pubblica che in quel momento non gode delle sue simpatie).

Un termometro di quel tempo è la lettera che Parri scrive a Prezzolini (siamo nel settembre 1915 e l’Italia è entrata in guerra da meno di quattro mesi), in cui rivendica la necessità che dalla guerra emerga una classe politica che prenda in mano le redini del Paese. Un tema che sarà il refrain dei nazionalisti italiani nel dopoguerra.

Il cambio di registro inizia ad esserci a ridosso della Marcia su Roma, ma soprattutto nel periodo che costituisce il passaggio e l’affermazione delle regole che fanno dell’Italia una dittatura, tra ottobre 1922 e aprile 1924 in cui si struttura il palinsesto politico che consente la costruzione del regime da autoritario a dittatoriale e, infine, totalitario.

In quei mesi Parri matura una svolta che lo porta a riconsiderare non solo cosa condividere, ma anche che cosa non è legittimo sopportare.

Lo dirà esplicitamente nella lettera che il 18 febbraio 1927 spedisce al giudice che lo deve giudicare per la sua partecipazione attiva – con Carlo Rosselli, Italo Oxilia, Sandro Pertini e l’aiuto organizzativo di Adriano Olivetti – all’espatrio di Filippo Turati (12 dicembre 1926).

In quella lettera Parri dichiara la sua responsabilità, ma soprattutto insiste sulla sua volontà di non dare al regime l’ultima e l’unica parola in nome dello stesso principio che propagandisticamente usa il regime per affermare la sua egemonia.

Parri nella sua lettera insiste sul dato generazionale, sul fatto che egli appartiene a una generazione che non si è «tirata indietro» quando era necessario (è per questo che richiama la sua partecipazione alla guerra). Il suo non è un «vezzo», anzi.

È una rivendicazione con un preciso valore politico, perché proprio la sua biografia smentisce la propaganda del regime che si sta costruendo: l’idea che sia l’Italia dei «disfattisti», e dunque degli «antinazionali», ad essere antifascista. È la rivendicazione non solo di un passato, ma anche del diritto a un futuro che il fascismo crede tutto per sé.

L’identità antifascista che Parri costruisce di sé e per sé nel quindicennio tra anni ’20 e anni ’30 ha la sua prima connotazione in questa postura politica.

 

La seconda postura sta nella ricerca dei propri maggiori che Parri individua (non è l’unico, certamente) nella rivisitazione dell’esperienza risorgimentale, e nella riflessione delle molte cose che maturano nel corso del Risorgimento e poi si perdono o arretrano. Un tratto che Parri condivide, ma anche acquisisce dalla sua amicizia con Nello Rosselli.

Il testo fondamentale, da questo lato, anche per il fascino che la figura esercita, è la vicenda di Carlo Pisacane. Una biografia politica con cui Parri si misura quando Nello Rosselli pubblica ne 1932 la sua monografia Carlo Pisacane nel Risorgimento italiano.

La figura di Pisacane, per come la restituisce Nello Rosselli, colpisce Parri perché il motore di quella biografia è costituito dall’invadenza del privato nell’atto pubblico. Il fatto tutto intimo che si trasforma non solo in cambiamento repentino, in stravolgimento della propria vita – un aspetto che sarebbe benissimo potuto rimanere “fatto privato” – ma che ora si produce come “scelta”. Un atto che non presume un “dopo” già intuibile o prevedibile, ma che, al più, indica un processo.  Il problema è dunque il profilo di quel processo: che cosa indica, cosa contiene, quali percorsi e occasioni consente di indagare.

Nello Rosselli non aveva mancato di sottolinearlo nelle prime righe della sua monografia (sono le righe si esordio dell’introduzione che significativamente si intitola “Perché è vivo Pisacane”):

«Guerriero e cospiratore – scrive Rosselli – Pisacane ci ammonisce che il riscatto di un popolo dalla tirannia, dalla servitù, dalla cronica fiacchezza politica, è anzitutto problema morale. Cospirazioni, sètte, rivolte, guerra, sta bene; ma hanno ad essere l’ultimo atto. Primo elemento della soluzione: indagare e chiarire perché mai questo popolo si lasciò rapire o rinnegò indipendenza e libertà. Secondo: crearsi e diffondere la coscienza della possibilità, e quindi della doverosità della risurrezione. Terzo: crearsi e diffondere una visione chiara degli ostacoli da superare, delle resistenze da vincere, degli errori da evitare, dei mezzi più atti a sollecitare la risurrezione, e poi del senso da darle, e del come fondarla graniticamente». (pp. IX-X)

L’allusione non poteva esser più esplicita e, infatti, Parri non mancava di coglierla nel lungo saggio di recensione che scrive nel 1933 invitando il lettore a leggere l’introduzione – che egli qualifica come “esame di coscienza” – solo “a volume finito” perché “gioverà a tutti, dissentendo rettificando o integrando, di confrontare ad esso le proprie idee”.

Quel tema non esprime una convinzione momentanea. Quel profilo ispirerà una condizione culturale che sottosta alle scelte politiche alla fine di quel decennio e nel periodo dell’Italia in guerra.

Ritorna nel tempo della Resistenza (e del resto quella stessa attrazione per il «canone Pisacane» inteso come paradigma della scelta e no come esaltazione del gesto eroico fine a se stesso, l’avrà in quegli stessi mesi Giaime Pintor quando nella presentazione alla riedizione del Saggio sulla rivoluzione di Pisacane, che cura per Einaudi nel 1943, scrive: “… comunque il politico Pisacane non poteva cedere. Egli apparteneva a un’altra razza, alla razza di coloro che nella storia del secolo scorso dovevano sostenere una parte diversa e difficile: non quella di chi raccoglie e ricostruisce, ma quella di chi abbatte e sacrifica. Solo tra questi suoi compagni di lotta egli appare nella luce che lo spiega, e trova la sua misura storica”.

 

È quel profilo – e qui si colloca la terza postura – che ritorna nella riflessione dei venti mesi resistenziali e nelle due occasioni, apparentemente molto diverse, se non opposte che lo vedono simbolicamente protagonista: da una parte la scena delle dimissioni da primo ministro (il 24 novembre 1945, resa magistralmente da Carlo Levi nel suo L’orologio, Einaudi), dall’altra la scena del suo discorso tenuto a Roma, al teatro Eliseo, il 13 maggio 1945 a premessa di quella designazione.

Un discorso che, forse. è il primo tentativo di «fare la storia» del movimento partigiano ma che soprattutto costituisce una rivelazione dell’«uomo Parri», del suo profilo politico, del linguaggio concreto, diretto, non retorico, oltreché morale. L’idea era che la Resistenza era un Risorgimento «riuscito» perché questa volta gli italiani c’erano. Dunque, attraverso la lotta di liberazione, si era essenzialmente tentato di «rifare l’Italia». Di rifarla con chi aveva dimostrato di prendere in mano il proprio destino, impegnandosi in prima persona. Dando forma, attraverso la decisione di combattere «per ricostruire», all’idea di «dovere civico» condiviso, e di una comunità inclusiva capace di guardare al futuro democratico all’orizzonte.

Senza dimenticare la necessità del percorso da intraprendere.

Ferruccio Parri dopo il novembre 1945 è la testimonianza di una vicenda a cui rimane legato, e che sa incompiuta. Il libro di Andrea Ricciardi si chiude avendo davanti questa scena di bilancio al novembre 1945.

E tuttavia forse non è improprio provare a aprire uno sguardo sul senso del lungo dopoguerra fino alla morte (1981).

Nel 1994, ripercorrendo una lunga vicenda culturale, politica e civile, rappresentata dal mensile “Il Ponte” (fondato da Piero Calamandrei nell’aprile 1945) in occasione dei 50 anni della rivista,  Norberto Bobbio si è soffermato sul logo della rivista per riflettere sul presente, sul passato sulle possibilità di futuro.

Il logo, scrive Bobbio, rappresenta un ponte diroccato, vittima della guerra, una sola arcata, crollata, distrutta, sugli estremi della quale, i pilastri e i pochi mattoni dell’arco rimasti in piedi. Su quei pilastri è posato un asse di legno, e un omino con un badile sulle spalle procede da una sponda all’altra su quella precaria passerella.

Cinquant’anni dopo, appunto nel gennaio 1994, Bobbio scrive: “siamo sempre sullo stesso ponte, diventato, se mai, col passar del tempo, più insicuro. Non solo non sappiamo se riusciremo davvero a passare dall’altra parte. Ma non sappiamo neppure che cosa troveremo qualora riuscissimo a varcarlo”.

Per poi concludere:

“Intanto continueremo a restare su quel ponticello, dal quale non ci siamo lasciati buttar giù in tutti questi anni, anche se non siamo mai stati dalla parte dei vincitori. E il non saper con sicurezza che cosa ci sarà al di là, come invece sapevamo allora, non è una buona ragione per rinunciare a cercare ancora una volta di raggiungere la riva”.

Non credo che Ferruccio Parri, proprio perché innervato dello stesso pessimismo realista, l’avrebbe detta diversa. Ma è proprio questo che ce lo rende prezioso in tempi grigi.

 

 

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CAT: Storia

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