Giaime Pintor. 100 anni e non dimostrarli

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27 Ottobre 2019

“Prima santino della Resistenza, poi voltagabbana sedotto dalla divisa nazista. Ma mai un uomo con i suoi tormenti, anzi un giovane di vent’ anni, il ragazzo irrequieto che scopre l’eros e insieme la vanità del vivere, affascinato dalle donne ma anche dal destino di morte, in febbrile attesa del riscatto per sé e per una generazione” così Simonetta Fiori,  nel novembre 2013 su “la Repubblica”,  sintetizzando con rapidità ed efficacia molti lati della questione “Giaime Pintor”a 70 anni dalla morte.

Se ricordare l’anniversario di Giaime Pintor (il prossimo 30 ottobre centenario della nascita) non appare un gesto eccentrico, allora vuol dire che sostanzialmente aveva ragione Luisa Mangoni quando osservava come si sia tornati a riflettere su quella figura “sempre in momenti cruciali della storia della cultura e della politica italiane, come alludere a un confronto tuttora necessario, alla opportunità di tener conto anche di quella voce in periodi di ripensamento o di crisi”.

È una suggestione saliente che indica uno dei motivi per i quali vale la pena tornare a rileggere i suoi scritti.

Il tema mi pare non sia come parlare della vita degli italiani nel momento del passaggio tra gli anni del consenso e l’inizio del processo di crisi e poi di crollo del regime, ma come avvengono quei passaggi; come maturano le scelte; in che forma e attraverso quali storie raccontarle e, per loro tramite, come si ricostruisce una storia lunga del Novecento.

La vicenda Giaime Pintor consente di affrontare più questioni: di contesto; di storia culturale; di generazione. Ma parla soprattutto a noi, e forse anche “di noi”: sia rispetto a quel tempo, sia nei modi e nelle forme in cui dopo ricostruiamo quel passato e lo raccontiamo oggi.

Non solo. Contemporaneamente tornare a riflettere sulla vicenda personale di Giaime Pintor, vuol dire riconsiderare come nel tempo è stata presa la misura con il processo di costruzione dell’icona “Giaime Pintor”, distinguendo e individuando fasi distinte. Ovvero: immediatamente dopo la sua morte, fino alla pubblicazione, nel 1950, per cura di Valentina Gerratana, de Il sangue d’Europa l’antologia principale dei suoi scritti. Poi con una seconda fase che si avvia con la pubblicazione di Doppio diario e gli echi di dei temi proposti in quella pubblicazione, infine, a partire dai primi anni ’90, con la discussione intorno all’azionismo e poi alla egemonia della sinistra italiana nel secondo dopoguerra che rimette in discussione la Resistenza come episodio fondante della storia italiana.

Al centro, i percorsi culturali ed esistenziali di quella generazione intellettuale che una retorica e una vulgata resistenziali riconoscevano e appiattivano sull’antifascismo in nome di “un popolo alla macchia”, e che nel tempo qualcuno ha proposto di guardare, attraverso una “vulgata” uguale e contraria, come appiattita sul fascismo

L’effetto è perdere quanto di inquieto e di inquietante, di faticoso e di articolato, quegli itinerari testimoniano o indicano.

La vicenda di Giaime Pintor, meglio della sua icona è significativa. All’inizio costruita sulla sua tragica fine e letta come rappresentazione dell’eroe perfetto; poi lentamente contestata o letta con disagio all’interno stesso del mondo intellettuale comunista o resistenziale che pone in questione la esemplarità della sua storia, quindi rimessa in discussione alla fine degli anni ’70.

La biografia di Giaime Pintor che Maria Cecilia Calabri ha scritto circa dieci anni fa avrebbe dovuto chiarire molti punti sollevati da coloro che periodicamente sono tornati a discutere intorno alla sua figura. Stesa con estrema cura filologica e con particolare acribia quel libro aveva molti pregi: quello di servirsi di molte fonti fino allora trascurate, comunque non note; quello di vedere e definire una figura complessa che si colloca in una stagione politica certamente inquieta. Più estesamente contribuire a produrre una storia di una generazione, che proprio per le sue caratteristiche non può che essere una “storia di storie”.   “Generazione senza maestri e soprattutto senza modelli” come ha scritto Massimo Mila, proprio riflettendo su Giaime Pintor, una generazione che è possibile descrivere solo affrontando un “viaggio dentro la crisi” come ha più volte insistito Luisa Mangoni.

Giaime Pintor è essenzialmente questo: l’espressione per certi aspetti molto individuale, con forti tratti di particolarità di una generazione. Una «generazione di mezzo», la denomina Luisa Mangoni. Generazione i cui travagli e incertezze, proprio i suoi scritti compresi tra il 1941 e il 1943, aiutano a individuare. Scrive Mangoni:

“Perduta la generazione dei «reazionari di sinistra», dei Salomon, degli Jünger; perduta quella dei rivoluzionari decadenti e dei «profeti senza fede» della Francia di Vichy: le minoranze intellettuali d’Europa, nate nella crisi di una guerra e ora alla prova di un’altra guerra, divenivano vicendevolmente specchi che restituivano un’immagine deformata  eppure pericolosamente autentica di se stessi”.

Una generazione la cui insoddisfazione o le cui insofferenze Pintor richiama esplicitamente nel suo testo sul romanticismo che pubblica su “Il Primato” nell’agosto 1941, quando scrive di non credere che la sua generazione

“… abbia sete di trascendenza, di lotta col demone, di miti eroici e di sublimi orrori [e] lascia ai vecchi intellettuali delusi questa confusione di propositi; le conversioni religiose e il distacco dal mondo. (…) [ritenendo che] di fronte a questa unanime decadenza la Dea Ragione di Robespierre, già oggetto di molti sarcasmi, appa[ia] in una luce nobile e calma; e uomini e momenti del secolo XVIII dimenticati o condannati come antistorici riprendono la loro funzione esemplare”.

Intorno a Giaime Pintor dunque si è riaperto da tempo il confronto e forse anche una disputa, per certi aspetti simbolica. Come tutti i luoghi di confronto simbolico, si costruisce intorno a una questione dirimente. Il tema è quello dell’ambiguità comunque della differenza, tra scelta e condizioni di vita. Su questi aspetti ha insistito particolarmente Mirella Serri. La questione secondo Serri, è la costruzione della figura di Pintor come icona di una generazione che legge l’episodio finale della sua vita come “redentivo” comunque capace di rendere opaco il profilo intellettuale che ne avrebbe definito la sua personalità fino a quel momento.

Il tema è dunque che cosa intendere per resistente. E soprattutto attraverso quali passaggi essa si rende evidente.

È stato Giovanni Falaschi ad aver descritto in quattro fasi la recezione della scrittura e della figura di Giaime Pintor nel panorama culturale italiano, a partire dalla sua monumentalizzazione perché, spiega,

“… la figura di questo intellettuale si offriva a loro come a tutti, con caratteristiche speciali, quali lo’essere stato in vita un giovane di straordinario ingegno e di grande fascino personale, e l’essere incappato in una morte precoce, violenta e dalla parte giusta, in aggiunta lasciando in eredità ai posteri un messaggio nobile e drammatico come la cosiddetta «ultima lettera» al fratello Luigi”.

A questo primo filo, ne segue un secondo che è dato da coloro che collocano Pintor all’interno di una generazione che è letta rispetto ai temi dell’irrazionalismo, dell’illuminismo e delle pieghe dell’esistenzialismo nella cultura italiana. Un terzo filone è rappresentato dall’indagine sull’organizzazione della cultura e in particolare sulla ricostruzione culturale intorno alla Casa Editrice Einaudi. Un quarto filone è rappresentato dalla riflessione sulla struttura della sua produzione letteraria e saggistica.

Questa filiera ci racconta in gran parte la storia della discussione sulla figura di Pintor e il suo lento cambiamento.

Quel processo a mio avviso è invece lento e ha il suo momento di maturazione di distacco intellettuale a partire dal 1942. Gli indizi dove misurarlo sono almeno tre.  Rispettivamente:

  • ciò che scrive sula Seconda inattuale di Nietzsche;
  • come Pintor riflette e propone il Saggio su la rivoluzione di Carlo Pisacane;
  • il giudizio sulla Francia di Vichy.

Questo terzo elemento a mio avviso è quello che nella scala dei tre è determinante ed è quello che è rimasto di solito più indietro nelle considerazioni di coloro che pure in anni recenti sono tornati a riflettere sulla vicenda intellettuale e umana di Giaime Pintor.

I primi du elementi sono intrecciati e riguardano che cosa debba intendersi per azione esemplare in quanto traccia di “pensiero di rottura”, di riflessione “contro”. Pintor lo sottolinea nelle sua breve nota su Nietzsche quando scrive che il senso della riflessione al centro delle pagine di Nietzsche è nel rifiuto dell’impianto storicista, ovvero nell’ “vigoroso impulso i ribellione contro una scuola che diventa asservimento, nel programma di liberazione dallo storicismo inteso come ossequio e passività di fronte a ogni «potenza storica».”

Nietzsche, più che un innamoramento irrazionale, è l’indicatore del processo riflessivo avviato e proposto con la proposta editoriale di Pisacane.

Anche su questo punto il rischio, infatti, è quello di una lettura tutta a posteriori in un contesto che ha, invece, un suo percorso preciso e anche per certi aspetti “sorprendente”.

C’è una lettura dei testi di Carlo Pisacane che è tutta interna al regime, Carlo Pisacane non è solo l’icona del ribelle e dell’esule, propria dell’antifascismo, così come emerge dalla biografia che Nello Rosselli pubblica nel 1932, ma è anche parte di una lettura di formazione per l’area del fascismo di sinistra, che già nel corso degli anni ’30 si interessa ed è attratta dai temi che caratterizzano il percorso risorgimentale dei democratici. Per questa parte del fascismo, il Risorgimento, interpretato in chiave antiliberale, significa rivalutazione della categoria di Nazione rispetto allo Stato rappresentato da Cavour. Carlo Pisacane diviene l’icona dell’eroe sacrificato alla necessità della politica, abbandonato, o non compreso da coloro che pure cercherebbe di rappresentare o cui vorrebbe dare voce.

La scelta di Pisacane, – “un frammento di ’48 francese nella storia italiana” aveva scritto Adolfo Omodeo recensendo la monografia di Rosselli, allude dunque a un’estraneità o a un’eccentricità di Pisacane. È il dato su cui si concentra tutta la critica alla monografia di Rosselli. La valorizzazione d quell’estraneità è il dato su cui invece si muove l’attenzione di Pintor, ma anche, e significativamente, è l’elemento che colgono i critici giovani della sua generazione che si misurano con quel testo e con le sue pagine: Paolo Alatri e soprattutto Armando Saitta. L’insistenza in questo caso sull’elemento volontarista – il tema è la spedizione di Sapri, un atto, come si legge in Doppio diario che indica che “azione è uscire dalla solitudine”, ma anche come ha sottolineato lo storico Gianpasquale Santomassimo, “la riappropriazione, in qualche misura, del mito delle minoranze eroiche contrapposto a una società arretrata e forse malata. Si fa quello che si deve, che si sente e si pensa di dover fare, a ragion veduta, indipendentemente dai risultati che si potranno ottenere”.

Questo aspetto di Pisacane, della sua “scelta” ha anche un valore collegato con la valutazione che Pintor esprime intorno alla crisi della Francia.

La solitudine, ma anche un ribellismo e un anticonformismo di facciata sono i tratti che Pintor coglie nella crisi profonda che attraversa la Francia, nel suo contatto con la realtà di Vichy. Una condizione di cui scrive nel testo dal titolo I rivoluzionari decadenti quando osserva

“… gli intellettuali francesi non sanno che cosa vogliono. I comunisti hanno un loro programma, i degaullisti anche. Perfino i puri del regime di Pétain vivono di una loro convinzione arcaica ma ferma. Solo i «clercs» che parlano in nome dell’intelligenza francese sfuggono a ogni precisazione, si difendono dietro il comodo riparo della crisi individuale. Se due partiti esistono ancora in Francia sono quello dei rimasti e quello dei fuggiti; fra gli attuali collaboratori della NRF e uomini come Malraux o Benda si è creato un distacco che non è soltanto ideologico. Nella madrepatria i contrasti spariscono: la necessità del compromesso ha creato quella tendenza politica che va sotto il nome straordinario di «attesismo» e che esprime una situazione spirituale nuova nella storia. Gli intellettuali cercano di conciliare le esigenze del loro mestiere con i tempi tragici, come gli uomini di Vichy tentano di salvare il salvabile nel vecchio giuoco delle diplomazie. Ma abbandonati fra il paternalismo cattolico del maresciallo e il cinismo degli ideologi di destra i francesi rischiano di perdere qualcosa che è più importante delle colonie atlantiche e della flotta: rischiano di perdere il senso umano della virilità”.

Il tema è il crollo dell’idea nazionale, l’ideale della costruzione di una società che prova a ridefinire ruoli, funzioni, fini e aspirazioni ma che non riesce e tuttavia che è consapevole della propria crisi. È la fisionomia di Drieu la Rochelle forse la prova più concreta di questa crisi, caratterizzata, ad un tempo, dall’incapacità, tra 1940 e 1942 di dare seguito a una reale volontà di ricostruzione. Dentro sta una crisi della Francia e della visione della politica che è indicata dalla “rabbia” di Drieu o dall’intransigenza europeista degli ideologi del collaborazionismo di Parigi. Lo stesso processo riguarda anche il problema di come tra 1940 e 1942 acquisti una dimensione culturale, oltreché politica l’area di opposizione e poi di Resistenza interna alla Francia. Un percorso faticoso in cui matura la pratica resistenziale e che, forse può essere anche utile per comprendere la parabola di Giaime Pintor.

È un aspetto si cui la storiografia francese ha lavorato soprattutto a partire dagli anni ’80.

La Resistenza indica prima di tutto un atto afferma Pierre Laborie. “La resistenza non comincia nel mondo delle idee, ma in quello dell’azione: più precisamente non si è resistenti, ma si fa della resistenza” osserva Laborie.

Allo stesso tempo questa distinzione obbliga a riconoscere che non sempre un’azione avvenuta nella Resistenza, è anche un atto di Resistenza. Riguarda chi lo compie e non solo che cosa si fa. Allo stesso tempo un atto di Resistenza deve essere coerente, ovvero deve esprimere e trasmettere, o meglio testimoniare coerenza tra impegno, intenzione e conseguenza. Ovvero: salvare qualcuno ma senza collegare questo atto all’intenzione di danneggiare l’occupante è un gesto che indica compassione, ma non un gesto di Resistenza.

La Resistenza dunque non è riducibile a un’azione. Questo aspetto si lega a una seconda questione. La resistenza è un atto responsabile e intenzionale. Il primo atto resistenziale consiste nella trasgressione.

Alcuni anni fa lo storico Laurent Douzou ha osservato come sia saliente paragonare l’8 settembre italiano con il giugno 1940 francese. In entrambi i casi una condizione in cui la realtà della cronaca va molto più veloce della capacità di saper trovare delle risposte adeguate e di fronte alla quale l’imperativo di trovare una soluzione mette a nudo la condizione di smarrimento.

Gli italiani nel 1943, come i francesi nel 1940, – scrive Douzou – si sono trovati di fronte a una sorta di tabula rasa sulla quale occorreva tentare di costruire qualcosa di nuovo. La situazione si complicò per il fatto che la presunta tabula rasa era, in realtà, ingombra di ogni sorta di affetti, fedeltà, impegni, modi di essere che continuavano ad esercitarvi i propri effetti, vale a dire a determinare i comportamenti di soggetti turbati e smarriti…

Il paragone potrebbe apparire improprio, specie se si hanno presente il senso di frustrazione e di sconfitta con cui uno storico come Marc Bloch, ma probabilmente in quel momento più nella veste del testimone appassionato e accorato che non in quella dello storico, descrive la condizione della Francia del giugno ’40.  Un crollo che certamente avviene in seguito a un’inadeguatezza sul piano militare strategico, ma che soprattutto indica una crisi profonda della società da tempo, come Bloch intuisce. Per esempio, nelle giornate del settembre. È un paese privo di un sentimento nazionale collettivo persino nel suo calendario civile ne sono prova le cerimonie per il ventennale dell’armistizio, l’11 novembre 1938. Paese in preda a un timor panico generalizzato come testimoniano le pagine di Raymond Queneau, Un rude hiver, pubblicato nell’ autunno 1939 e le riflessioni amare di Georges Bernanos nel suo Les enfants humiliés.

Se si dovesse fare un parallelo con il quadro italiano, sarebbero sufficienti le pagine con cui Salvatore Satta scrive De profundis, un testo che a lungo è stato richiamato – intorno alla dizione di “morte della patria” – come  quel testo che più di altri ha descritto una condizione di smarrimento.

Il tema è dunque fare i conti con una sconfitta che nasce “prima” e che perciò vive la possibilità di risposta contemporaneamente come disobbedienza e come presa in carico su di sé del peso della sfida.

Come il 1940 per la Francia, il 1943 costituisce una faglia nella storia e nella memoria pubblica italiana. In quella faglia sta l’elemento della scelta, che più che dalla consapevolezza nasce dalla “disobbedienza” in cui come ha richiamato anni fa Claudio Pavone include l’elemento della moralità, l’insieme di comportamenti alimentati da istanze etiche che hanno una valenza politica.  Atto che si coniuga con l’idea o la voglia di riscatto di una generazione, quella dei nati sotto il fascismo o comunque in gran parte formati sotto il regime, nel senso di percepire il diritto di riprendersi una parte di vita o a scegliere in autonomia. Ma anche atto che mette al centro le persone e che consiste nell’indagare le forme e le procedure del cambiamento, dove al centro stanno le azioni, le speranze, i vissuti, gli investimenti.

Forse si deve proprio a Giaime Pintor la descrizione più radicale di questa condizione. “Troppe cose – scrive nelle sue note private – ci sono state tolte per troppo tempo perché non sentiamo il bisogno di possederle, la gioia di ritrovarle, genuina come genuina è la fame fisiologica che si prova dopo anni di restrizioni alimentari”.

Su questo spunto prende corpo la riflessione di Giaime Pintor nei giorni del settembre 1943 e forse ha senso ritornare su quelle parole proprio in conseguenza delle categorie e delle suggestioni che Claudio Pavone ha aperto 30 anni fa con il suo Una guerra civile, sui temi e i percorsi propri di una figura come quella di Giaime Pintor.

Le parole con cui Giaime Pintor descrive quel momento di rottura sono rappresentative di una condizione che dice molte cose. Il passo è molto famoso, ma conviene riprenderle.

“I soldati che nel settembre scorso traversavano l’Italia affamati e seminudi, – scrive Pintor – volevano soprattutto tornare a casa, non sentire più parlare di guerra e di fatiche. Erano un popolo vinto; ma portavano dentro di sé il germe di un’oscura ripresa: il senso delle offese inflitte e subite, il disgusto per l’ingiustizia in cui erano vissuti. Ma coloro che per anni li avevano comandati e diretti, i profittatori e i complici del fascismo, gli ufficiali abituati a servire e a farsi servire ma incapaci di assumere una responsabilità, non erano solo dei vinti, erano un popolo di morti. La caduta dell’impalcatura statale scoprì le miserie che ci affliggevano, scoprì che il fascismo non era stato una parentesi, ma una grave malattia e aveva intaccato quasi dappertutto le fibre della nazione”.

Il percorso che Giaime Pintor descrive in queste pagine è quello di una generazione che nei giorni del settembre 1943 (ma già si potrebbe dire in una partita che è aperta da circa un anno sotterraneamente dall’autunno 1942) deve fare i conti contemporaneamente con l’antifascismo politico e militante che riemerge lentamente e l’antifascismo sociale che da marzo 1943 è riemerso. Un “antifascismo esistenziale” al cui interno maturano le scelte che si consumano nell’autunno 1943. Di quel tempo i due testi più famosi (quello sul 25 luglio 1943 e l’ultima lettera al fratello) sicuramente rappresentano un canone: letterario, emozionale, esistenziale. Per ciò cui alludono, più che non per il percorso che rappresentato; per il loro lato emozionale, che non per ciò che contengono di razionale; per come sono letti, più che per come sono scritti. In breve per il loro carattere generazionale.

Allo stesso tempo proprio per questo loro carattere iconico ciò che rischia di andare perduto, o di essere misinterpretato è la difficoltà con cui quelle scelte maturano, più problematiche nelle convinzioni, e che lasciano dei margini di ambiguità tra ciò che si scrive, ciò che si pensa, ciò che si fa.

Il tema in breve è quello lento e anche incerto di un percorso esistenziale di una generazione che si muove con l’emergere progressivo della crisi del regime in cui in qualche modo si era identificata e al cui interno era cresciuta, la presa d’atto della non credibilità agli occhi di quella generazione di ciò che c’era prima, delle vie da intraprendere per trovare forme e modi di dare un ordine diverso alla propria vita, nonché forma e fisionomia a nuove sensibilità.

Di questo, a obbligarsi a leggerli con curiosità e senza tesi preconcette, parlano gli scritti di Pintor.

Proprio per questo sono significativi, perché individuano e delineano un processo “in itinere” più che un percorso compiuto. Indicano i percorsi della scelta, un atto che segna uno scarto. Non sono per niente eroici. Sono molto umani.

 

 

TAG: Carlo Pisacane, Claudio Pavone, Georges Bernanos, Giaime Pintor, Giovanni Falaschi, Laurent Douzou, Luisa Mangoni, Maria Cecilia Calabri, Massimo Mila, Mirella Serri, Nello Rosselli, Nino Aragno Editore, Pierre Laborie, Salvatore Satta, Valentino Gerratana
CAT: Storia

2 Commenti

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  1. zebupoint 4 anni fa

    Sarebbe stato opportuno ricordare la lunga e controversa recensione di Franco Fortini a Doppio Diario, che tanto dispiacque a Luigi Pintor, per meglio chiarire alcune zone d’ombra della borghesia intellettuale italiana dello scorso secolo

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  2. ennioabate-alice-it 4 anni fa

    Mi associo alla richiesta di zebupoint. Non si capisce perché su Fortini tutti oggi tacciano. Provate a rileggerla attentamente quella sua recensione “fuori dalle righe” al Doppio diario di Giame Pintor.

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