Gianni Rodari, pensatore critico e poeta. Su Lezioni di Fantastica
Gianni Rodari è lo scrittore per l’infanzia del ‘900 “militante” per eccellenza, che ha saputo vedere nella favola e nella filastrocca delle “armi” per la liberazione del bambino. Così me lo ricordavo, visto che le Favole al telefono, le Novelle fatte a macchina e, soprattutto, Le avventure di Cipollino sono dei pilastri della mia formazione.
Vanessa Roghi, col suo Lezioni di Fantastica. La storia di Gianni Rodari, ha trasformato sensibilmente l’immagine di Rodari che conservavo nella mia memoria. La sua biografia ricostruisce un Rodari in cui lo scrittore di favole “sovversive” è inseparabile dalla figura dell’intellettuale “organico” del Pci, protagonista a pieno titolo del dibattito e della definizione della politica culturale del partito per più di vent’anni. Anche la scelta di scrivere una biografia “tematica”, nella quale i diversi capitoli trattano ad es. il Rodari giornalista, il Rodari nei suoi viaggi in Unione Sovietica, il Rodari che produce i suoi libri andando in classe alla scuola elementare, è molto convincente nel rendere la realtà di un figura articolata e complessa di intellettuale, che è senza dubbio di più dello scrittore per bambini che solitamente si ricorda.
È evidente che sull’appiattimento della figura di Rodari, collocato nella storia della letteratura italiana contemporanea alla voce “autore di favole”, ha senza dubbio contribuito la rimozione e la volgarizzazione della storia del Pci nei decenni seguenti al suo scioglimento. Lui ha subìto un destino simile a quello di tanti altri intellettuali comunisti, salvandosi dai tentativi di “demonizzazione” a mezzo stampa probabilmente per l’”innocenza” garantitagli dall’aura di scrittore per bambini (pur non evitando gli attacchi volgari che lo hanno ingiustamente ridotto a un apologeta del lassismo pedagogico).
Io, nella “storia di Gianni Rodari” ci leggo innanzitutto quella di un intellettuale senza maestri, che si forma seguendo delle piste culturali insolite per un giovane che si avvicina al comunismo tra l’adolescenza, nella seconda metà degli anni ’30, e la giovinezza degli anni ’40: oltre ai classici della letteratura moderna europea i surrealisti, che entrano in cortocircuito con un romantico come Novalis, che gli offre lo spunto della “fantastica”, che poi diventerà “grammatica della fantasia”. E poi, il lavoro critico sulle fiabe, da Propp a Collodi ad Andersen, svolto tuttavia non con l’atteggiamento del critico letterario “puro”, ma con uno sguardo sempre rivolto alla pedagogia ed alla psicologia dell’età evolutiva. È questo il laboratorio in cui Rodari elabora i principi di un proprio linguaggio dell’utopia. L’immaginazione, il fantastico, non sono una fuga dalla realtà (è la posizione che Rodari prenderà nei confronti dei suoi critici del Pci, sin dagli anni dello stalinismo, anche contro Nilde Jotti e lo stesso Togliatti) ma sono da un lato dei punti di vista che gettano luce sulla realtà, insegnandoci a comprenderla criticamente, dall’altro un che di “fine a se stesso”, in quanto costituiscono lo sviluppo di una possibilità unica dell’umano.
Perciò l’elemento letterario, quello politico e quello pedagogico, in Rodari, restano inscindibilmente legati. Nella Grammatica della fantasia esplora le possibilità del linguaggio dal punto di vista di una pratica linguistica determinata, l’”inventare storie”. E, dimostrando che ogni parola possiede connessioni semantiche pressoché infinite – fonetiche, associative, oppositive, “disfunzionali” – e che lo stesso accade al livello superiore delle frasi o, ancora, in quello della costruzione di personaggi e delle storie, genera una combinatoria che lo pone nella scia di Lewis Carroll e di Raymond Queneau.
Il suo laboratorio letterario resta sempre ancorato alla militanza, che in Rodari consiste nell’offrire l’esempio di un “lavoro culturale” capace di essere del tutto autonomo dalla “linea di partito” ma nello stesso tempo pienamente organico al progetto culturale del Pci. In effetti, il libro di Vanessa Roghi fa pensare alle modalità plurali dell’essere “intellettuali comunisti”, nei settant’anni di vita del partito. Una storia lontanissima da Zdanov.
Ma l’inventare storie di Gianni Rodari è legato al programma “tutti gli usi della parola a tutti”, una educazione linguistica universale contro una scuola riproduttrice delle diseguaglianze sociali. Usando un linguaggio più recente, potremmo dire che lo sviluppo dell’immaginazione è una forma di liberazione della mente e al contempo un processo al servizio dell’apprendimento di “competenze”. Rodari, alla fine degli anni ’60, sperimenta concretamente il nesso che lega l’invenzione di storie, la pratica pedagogica e l’immaginazione infantile, frequentando regolarmente una classe di scuola elementare insieme alla quale elabora, in un processo di scrittura collettiva, La torta in cielo. Il programma, o, potremmo dir meglio, l’orizzonte, di “tutti gli usi della parola a tutti”, cui hanno contribuito, in momenti diversi del tempo, oltre a Rodari, Tullio de Mauro e don Lorenzo Milani, oggi, sta là, come il “Manifesto di Ventotene”, ad ammonire su ciò che poteva e che non è stato.
A proposito di possibilità irrealizzate, sono di grande interesse le discussioni polemiche, riportate da Vanessa Roghi che, tra la seconda metà degli anni ’60 e la fine dei ’70 coinvolgono, oltre a Rodari, l’MCE, Aldo Bernardini e Goffredo Fofi. Questa parte del libro, che avvia il lettore verso la conclusione, ha suscitato in me, leggendo, malinconia. E non soltanto perché, man mano che il libro va avanti, Rodari si avvicina a una morte prematura, a 60 anni, e neppure perché si avverte che, nelle discussioni nella sinistra italiana, il clima cambia: dagli entusiasmi dei ’60 al clima sempre più teso dei ’70, con le stragi e la lotta armata, che favorisce il risentimento e i regolamenti di conti. La sensazione di malinconia mi viene dall’avvertire lo scarto che si viene aprendo, sempre di più, tra la dimensione “interna” del dibattito pedagogico e la dimensione “esterna” delle riforme scolastiche, sia riuscite che fallite, che intervengono nella scuola italiana. È come se tutti i protagonisti di queste discussioni politico-pedagogiche restino ignari che le trasformazioni della scuola – mosse innanzitutto da un ciclo di trasformazioni economiche e sociali di portata storica, con l’industrializzazione prima e con la terziarizzazione poi – andavano verso un esito gattopardesco, del cambiare tutto perché nulla cambi. Tutto cambia, perché si massifica la partecipazione, e diminuiscono tendenzialmente i tassi di bocciatura, nulla cambia perché i meccanismi di discriminazione sociale si diluiscono, vengono spostati più avanti e affidati a processi di selezione e “auto-selezione” (i figli dei lavoratori che rinunciano all’università non solo per ragioni economiche ma perché “non fa per loro”).
In tempi in cui si è costretti a reinventare e a recuperare il “pensiero critico” per ragioni di voglia e di necessità (con pochi anni per rimediare alla prossima estinzione) Vanessa Roghi ci fa il ritratto di un altro pensatore critico, che non è noioso, che non parla difficile, che è “per tutti”, non solo per bambini, Gianni Rodari.
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