I nani di strapaese
“Eravamo molto fascisti”, ha annotato il giornalista toscano Paolo Cesarini ricordando in un bellissimo libro scritto in prima persona, “Italiani cacciate il tiranno, ovvero Maccari e dintorni”, l’epopea della sua generazione: quella degli “strapaesani”. Sul finire degli anni Venti del Novecento, erano infatti tanti i ventenni che si riconoscevano nelle pagine del Selvaggio, la rivista diretta da Mino Maccari, che dal 1924 al ’42 diede anima e forma al movimento di Strapaese. Il Selvaggio era nato a Colle Val d’Elsa, nella campagna senese, il 13 luglio 1924, un mese dopo l’uccisione di Matteotti: proprio mentre in molti stracciavano la tessera del partito di Mussolini, questi giovanissimi tornavano all’attacco e reclamavano la loro rivoluzione generazionale. Dalla campagna toscana, dove veniva creato quel fogliaccio (“battagliero fascista”, si leggeva sotto la testata che era contrassegnata da due motti: “marciare, non marcire” e “né speranza, né paura”) si rilanciavano le parole d’ordine diciannoviste, quelle dei fasci della fondazione milanese a piazza San Sepolcro. “Un fascismo anarchico” lo definì Indro Montanelli. “Un fascismo libertario”, secondo Giano Accame, per il quale anche se si tratta di una “occasione mancata”, si tratta comunque di una potenzialità ideale, di un atteggiamento esistenziale che, al di là della sua concretizzazione storica, è però presente nell’immaginario della cultura italiana come di ciò “che avrebbe potuto essere il fascismo in versione libertaria”.
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“Eravamo – ha appunto spiegato Cesarini per dare il senso di quella temperie – molto fascisti. Romano Bilenchi aveva addirittura la tessera, invidiatissima, del 1922, di quando aveva appena tredici anni, io credo del ’26 o ’27. Ci consideravamo anzi esemplarmente fascisti soprattutto perché, secondo noi, le gerarchie tradivano la rivoluzione”. Dei futuri sodali di questa pattuglia generazionale, l’unico, allora davvero troppo piccolo, che non riuscì a far proprio fino in fondo questo clima, fu forse solo il giovane pescarese Ennio Flaiano. E comunque nell’Antipatico 1960, l’almanacco che pubblicava l’editore Vallecchi, il futuro sceneggiatore del film “La dolce vita” pubblicherà una sua poesia per rievocare le passioni d’inizio secolo del suo amico Maccari e della sua generazione: “Mino, ricordi la Marcia su Roma? / Io avevo dodici anni, tu ventuno. / Io in collegio tornavo e tu a Roma / guidavi la squadraccia dei Trentuno. / Mino, ricordi? Alle porte di Roma /ci salutammo. / Avevi il gagliardetto / il teschio bianco, il pugnale tra i denti. / Io m’ero tolto entusiasta il berretto / ricordi? Tu eri perfetto / nella divisa di bel capitano. / Io salutavo agitando il berretto. / Tu andavi a Roma, io andavo a Milano”.
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Tra questa generazione di intellettuali c’era, indubbiamente, Leo Longanesi. Negli anni Trenta davanti al Caffè Aragno di Roma il giovane di Bagnacavallo teneva banco lì, insieme a quella pattuglia di intellettuali. E tutto era iniziato con una lettera del giovane Leo a Maccari: ai primissimi tempi del Selvaggio scrive a Mino e gli propone la sua collaborazione avvertendolo, a scanso di equivoci, che si è posto un solo scopo nella vita: fare tanti quattrini. Maccari si convinse che in un’epoca di retorica e di sbandierati ardori disinteressati quel giovane doveva essere davvero fuori del comune. I due si incontrarono e si avviò l’intreccio tra il foglio di Colle Val d’Elsa e L’Italiano, una rivista messa su da Longanesi dopo la sua adesione ai postulati di Strapaese. Il sodalizio durò fino alla fine della guerra e si interruppe solo per ragioni geografiche, perché la fine delle ostilità trovò il senese in Versilia e il romagnolo a Napoli. E dopo, le posizioni si invertirono ancora: Longanesi a Milano per partecipare da editore e direttore del Borghese al decollo della città lombarda, Maccari di nuovo a Roma nella sua cattedra all’Accademia e collaboratore del Mondo.
Luciano Lanna
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