Il senso perduto della nostra sconfitta in guerra

5 Maggio 2015

Non c’erano partigiani nella mia famiglia. Zona di reclutamento alpino, lo zio Fausto non lo conobbi perché morì in Grecia mentre lo zio Attilio fu tra i feriti sulle montagne di Albania. Lo zio Vincenzo tornò dalla Russia con una manciata di dita delle mani e dei piedi congelate che mai vidi, nascoste con pudore nel pugno sempre serrato. Con un nonno contadino socialista e un altro cittadino ed elegantissimo fascista, la guerra nella mia infanzia fu l’espressione seria e silenziosa della mia bisnonna quando qualcuno ne accennava e il racconto di mia nonna sui bombardamenti, la corsa al rifugio, il nonno fascista che abbracciava per proteggerla la piccola che divenne mia madre. Erano gli anni della ricostruzione e noi baby boomer venivamo tenuti protetti da un passato da dimenticare per troppe ragioni.

Il 4 Maggio 1945 veniva firmata la Convenzione di Lunenburg che sanciva la resa tedesca nel Nord Europa e seguiva di qualche ora la resa tedesca di Caserta, operativa dal 2 maggio, alla cui firma non furono ammessi né il governo sabaudo dell’Italia Libera né i Repubblichini di Graziani, considerati dagli alleati esponenti di uno stato fantoccio. Dal punto di vista politico ancor più che militare l’Italia non esisteva più e tornava brevemente ad essere una espressione geografica.

In queste ore la Grecia, esattamente a 75 anni dagli eventi, chiede ai tedeschi l’indennizzo per l’occupazione conseguente alla guerra di aggressione italiana e Joachim Gauk, pastore protestante, difensore dei diritti umani nella DDR, oggi presidente della Repubblica Federale tedesca e attivista di Gegen Vergessen – Für Demokratie  (Non dimenticare – Per la democrazia), apre alla richiesta ellenica sentendo vivo il passato della nazione.

La mia domanda è, cosa ricordiamo noi della nostra sconfitta?

Pressochè nulla: in forza della retorica sul 25 Aprile e della lotta partigiana sul cui mito abbiamo ricostruito l’Italia repubblicana noi abbiamo cancellato un pezzo della nostra storia che invece dovremmo crudamente riscoprire perché col fascismo come autobiografia della Nazione noi non abbiamo ancora fatto i conti fino in fondo. Nella storia tramandata la sconfitta fu nazifascista, quasi un’altra entità rispetto all’Italia e per questo scrivendo voglio esasperare il “noi”.

A cosa sono legati i nostri ricordi di guerra? Emotivamente al disastro sanguinoso della campagna di Grecia e ancor più all’epopea della ritirata dell’Armir dal Don, alla battaglia di El Alamein in Egitto, all’eccidio di Corfù e ai filmati del bombardamento della abbazia di Cassino:  ferite familiari, una idea collettiva di noi italiani non colpevoli ma vittime di un doloroso destino contro la nostra volontà, accadimenti e racconti umani che cancellano la dimensione politica. Ma che ci facevamo in Russia, in Egitto e in Grecia? Non sono i nostri morti sulla soglia di Gorizia o sull’Isonzo ma sepolti nelle steppe russe o nel deserto africano. Nessuno si fa mai la domanda cruda: ma che ci facevamo lì? Nessuno riflette che una dittatura nata dagli esiti di una guerra, arrivata al potere forzando la democrazia a suon di manganellate e che dell’italiano come soldato aveva fatto un mito non poteva che portarci di nuovo alla guerra.

Nessuno riflette e tutti vogliamo dimenticare che la nostra fu una autentica guerra di aggressione, nata con retorica senza appelli il 10 Giugno 1940 davanti ad una folla anonima ed esultante.

Perché è necessario ricordare? Perché in caso contrario passeremo ancora anni a discutere se i morti repubblichini abbiano la stessa dignità dei partigiani, se chi cercò la “Bella Morte” fu fedele o traditore, se la guerra civile fu vinta da qualcuno su suo fratello.

Ciò che dovremmo ricordare, invece che rimuovere come abbiamo fatto,  sono le conseguenze della resa delle coscienze alla dittatura, la accettazione dello scambio tra minori libertà e maggiore sicurezza che, in gradi diversi, attraversa ancora oggi la storia delle nazioni e che da noi assunse la dimensione del consenso massiccio al regime. Dovremmo ricordare che combattemmo in terra straniera per la dittatura e non per la libertà e ciò dovrebbe costituire ancor più del 25 Aprile il segno distintivo della nostra Repubblica: è difficile convivere con una sconfitta, ancor più difficile stampare nella memoria collettiva che eravamo gli aggressori ma è proprio in questa consapevolezza ancor più che nel riscatto storico il senso di una democrazia. Dopo 75 anni Joachim Gauk, con  nostro stupore come se la rivendicazione greca e la risposta tedesca fossero un gioco di convenienza,  ricorda ai tedeschi di inchinarsi alla storia prima ancora che alla politica: e noi?

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CAT: Storia

Un commento

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  1. Per la verità sarebbe ora di cominciare a capire che ci facevamo nel 1915 sull’Isonzo, ovvero nel territorio di un altro stato, per di più abitato da una popolazione dove gli italiani erano del tutto assenti. E di chiederci se davvero trentini e triestini erano così ansiosi di farsi liberare dal secolare giogo asburgico, o ce l’hanno raccontata.

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