Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare
Primo Levi
La Shoah è stata assunta negli ultimi anni come punto di riferimento ineludibile di riflessione etica sul peso della storia che ci portiamo alle spalle.
Tentiamo di schematizzare brevemente i principali elementi storici che rendono unica la Shoah:
a) si è trattato dell’unico caso nella storia in cui pregiudizi alla base di un’ideologia secolare come l’antisemitismo hanno suggerito e agevolato la progettazione dello sterminio di un intero popolo – gli ebrei – azione che da allora viene chiamata “genocidio” (termine ora in gran voga e di cui ampiamente si abusa);
b) è stato l’unico caso in cui la civiltà europea ha tentato di eliminare in modo largamente volontario una parte fondamentale del suo patrimonio umano e culturale;
c) per la prima e auspicabilmente unica volta nella storia l’intera macchina militare e burocratica di uno stato ha assunto come fine programmatico lo sterminio di un popolo;
d) è stato l’unico caso in cui la furia persecutoria propria di un uomo (Hitler) si è trasformata in azione che venne messa in pratica da chi riconosceva in questo uomo il proprio leader; un’intera generazione (fatte salve rare eccezioni) di un popolo – quello tedesco – partecipò in vari gradi alla macchina dello sterminio.
La Shoah è stata quindi un evento unico: ha travolto l’intera comunità ebraica e ha mobilitato milioni di uomini e donne direttamente coinvolti nel massacro. Ma non si tratta di una questione di numeri, non è lì che risiede la sua unicità. Sei milioni sono un numero spaventoso, eppure ci sono state nella storia anche stragi più sanguinose. Ogni morte violenta è di per sé “unica” e impone una riflessione etica che conduca all’elaborazione di una necessaria memoria. L’unicità della Shoah, oltre che negli elementi elencati schematicamente, risiede nel fatto che si trattò di un meccanismo sorto all’interno di un mondo occidentale liberale, industrializzato, tecnologicamente avanzato che nella sua presunzione di superiorità morale verso altre civiltà è stato capace di produrre sì cose ottime (dagli antibiotici al motore a scoppio, dalla democrazia al cinema a quel che si vuole aggiungere), ma anche dinamiche terribili, come appunto la Shoah. Senza la partecipazione di massa degli europei, che in vari gradi e con diverse responsabilità si sono trasformati in carnefici, la Shoah non avrebbe potuto essere realizzata ed è per questo che si può parlare di “macchina” dello sterminio.
La difficoltà di dare un nome allo sterminio degli ebrei
Per molti anni allo sterminio degli ebrei non venne mai neppure attribuito un nome (fatta salva la definizione di “soluzione finale del problema ebraico”, per altro ideata dagli stessi nazisti); ora ne abbiamo a disposizione addirittura due, Olocausto e Shoah. Negli ultimi anni la parola ebraica Shoah (letteralmente: distruzione, catastrofe) è stata preferita in Italia e in altri paesi per la sua qualità descrittiva in lingua ebraica di un evento così estremo da essere stato definito variamente come “indicibile”, “impensabile” ecc.
La parola Olocausto è sembrata ambigua per la sua origine etimologica che ne rimanda il significato più profondo a un’azione religiosa, l’offerta di un sacrificio in “olocausto” a un dio, che sembra particolarmente stridere con l’evento in sé. Tuttavia il primo ad usare la parola Olocausto fu lo scrittore ebreo Elie Wiesel, vittima assieme alla famiglia dei campi di sterminio e premio Nobel; la sua influenza culturale è forse all’origine dell’accoglimento della parola Olocausto soprattutto in ambito anglosassone e americano, tanto che il museo nazionale realizzato a Washington per ricordare lo sterminio degli ebrei prende il nome di Holocaust Museum.
Collocare nella giusta dimensione storica lo sterminio degli ebrei d’Europa
A fronte della questione dell’unicità o di quella dei “nomi” dello sterminio, soprattutto in ambito scolastico è necessario innanzitutto non prescindere da una accurata ricostruzione degli avvenimenti storici che hanno condotto alla realizzazione della soluzione finale. Sì, alla realizzazione, perché se è fuor di dubbio che le comunità ebraiche non sono scomparse dopo lo sterminio, è altrettanto vero che il nazismo e i suoi alleati sono riusciti nel loro intento di cancellare un intero mondo, la civiltà ebraica dell’Europa orientale che lì aveva trovato la sua culla fatta di elaborazioni culturali e religiose originali (chassidismo e haskalà russa), canti (il klezmer), lingua (lo Yiddish), esperienze politiche (bundismo, sionismo), vite umane. Solo una ricostruzione degli avvenimenti e una parallela ricostruzione dell’ambiente potrà condurre studenti e insegnanti a porsi interrogativi più teoretici e comunque ineludibili sull’importanza della memoria e sull’unicità della Shoah.
Per dare quindi solidità concettuale all’evidenza dell’unicità della Shoah, sarà innanzitutto necessario lasciare un opportuno spazio a una sorta di formazione storica continua e permanente (indirizzata agli studenti, certo, ma anche ai politici e ai giornalisti e comunicatori di ogni sorta che troppo spesso usano e abusano del concetto di Shoah e di quello di genocidio) sugli elementi fondamentali che descrivono l’ascesa del nazionalsocialismo al potere, la soppressione rapida delle libertà democratiche in Germania, la rimessa in discussione del trattato di Versailles, il riarmo unilaterale. Poi il 1935 e le leggi di Norimberga sulla purezza della razza e loro conseguenze, accompagnate dai paralleli progetti di pulizia razziale della popolazione tedesca, soppressione dei malati mentali e degli handicappati; la costruzione dei primi campi di concentramento per oppositori politici, l’espansionismo (Anschluss), la “notte dei cristalli”, e infine l’esplosione della guerra mondiale e le tappe che hanno condotto alla realizzazione dello sterminio, dai Gaswagen alle Einsatzgruppen fino alle camere a gas e ai forni crematori. E tanto per non eludere le responsabilità (che ci sono assai più prossime di quanto in genere non si creda) sarà anche necessario analizzare le forme della collaborazione italiana allo sterminio: la promulgazione di una autonoma legislazione razzista antiebraica realizzata dagli apparati amministrativi italiani, la progressiva rapida emarginazione della minoranza ebraica, la caccia all’ebreo scatenata dopo l’8 settembre 1943 con la collaborazione attiva di civili, personale di polizia e Guardia Nazionale repubblicana. La deportazione, infine, di ottomila ebrei italiani per una destinazione (Auschwitz) che non era probabilmente del tutto “ignota” come per molto tempo si è voluto credere.
La necessaria fedeltà al monito di Primo Levi
«Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario, perché ciò che è accaduto può ritornare» (Primo Levi). Non c’è contraddizione fra l’affermazione di unicità della Shoah e il confronto con gli episodi che vedono l’oppressione, l’esercizio gratuito della violenza di massa, le minacce di sterminio che in vari contesti si manifestano nella nostra contemporaneità. La Shoah è stata un evento unico e una delle enormità di quell’evento è stata quella di aver stabilito un canone linguistico e concettuale dell’orrore. Le sue caratteristiche sono state tali per cui nell’immaginario dell’umanità quando si vuole condannare un massacro non c’è scelta se non quella di utilizzare quel vocabolario per dare la misura dell’allarme. Parole come Lager, deportazione, sterminio, annientamento, e l’accusa di “nazista” a chi perpetra omicidi di massa, fanno parte del comune armamentario retorico di giornalisti e politici a tutte le latitudini. Si tratta naturalmente di paragoni impropri, che spesso vengono proposti senza particolari cautele, ma anche senza malizia, tentando di esprimere un sincero allarme per troppe morti di innocenti, o per derive autoritarie, o per altri tipi di manifestazioni che spingono i commentatori a tener fede al monito dei principali sopravvissuti ai campi di sterminio nazisti – fra tutti Primo Levi – che a più riprese ci hanno chiesto di non abbassare la guardia perché quel che è accaduto può, in determinate condizioni, ripetersi. Da qui l’invito costante a non permettere che l’indifferenza si appropri delle nostre coscienze, consentendo che vengano messe in atto azioni di sterminio. “Nel 2000 – disse Elie Wiesel – chiesi all’Assemblea dell’ONU se il mondo avesse imparato la lezione di Auschwitz. La risposta, ieri e oggi, è no. Come spiegare altrimenti Cambogia, Bosnia, Ruanda, Kosovo, Sudan e Siria?”
Naturalmente ci sono anche contesti nei quali il paragone con il nazismo viene fatto in forma malevola e per nulla ingenua. In particolare quando si accusano le politiche israeliane nei confronti dei palestinesi additandole come nuovo nazismo (l’archivio della Fondazione CDEC raccoglie da decenni vignette apertamente antiebraiche che azzardano questo paragone), oppure quando si suggeriscono analogie fra situazioni differenti come la vita a Gaza o nei territori della Cisgiordania e le condizioni degli ebrei nel ghetto di Varsavia. Le dinamiche storiche sono differenti, le forze in campo anche, e il paragone viene fatto con intenti esplicitamente antisemiti e negazionisti. Perché un fatto è certo: la Shoah fu un evento unico e fu perpetrato dai nazisti e dai loro alleati contro gli ebrei in quanto tali.
Compiuto il necessario sforzo di chiarezza sulle dinamiche storiche – del passato come del presente – fare paragoni però si può, eccome. I paragoni con il nazismo e con la Shoah sono stati fatti sempre nei decenni passati, alcune volte con giustificato allarme, altre volte a fini politici non sempre limpidi. Di certo le tragiche dinamiche che travolgono milioni di persone, i profughi in fuga da guerre e fame, il traffico di esseri umani gestito dalle mafie e dalle centrali del terrorismo internazionale, hanno storicamente poco a che fare con la Shoah. Hanno invece a che fare con il sacrosanto principio etico dell’intangibilità e sacralità della vita umana, e con l’impossibilità dell’indifferenza di fronte a tragedie che comunque accadono. E’ e rimane prioritario il dovere di soccorrere e di mostrare la necessaria pìetas verso quei civili che soffrono e sono nudi e impotenti di fronte ai movimenti della storia. Un bambino che ha fame va rifocillato e protetto, una madre va rivestita e difesa, un padre in fuga e disoccupato va soccorso e messo in condizioni di lavorare e di risollevarsi. Dare loro soccorso temporaneo in un luogo come il Memoriale della Shoah non significa stabilire connessioni fra dinamiche storiche differenti e incomparabili; è solo un modo civile di dare significato contemporaneo a valori etici quali la solidarietà e l’umanità da preservare.
Ma ci sono situazioni contemporanee – in alcuni casi le stesse da cui tentano di sottrarsi i profughi in fuga dall’Africa – che concettualmente conducono a utilizzare il paragone senza rischiare di svilire o di colpire in qualche modo la memoria dello sterminio degli ebrei. Un campo di concentramento – ad esempio – è un luogo in cui viene conculcata la libertà umana in maniera volontaria da un potere quale che sia. Un luogo (nella Polonia degli anni ’40 come nella Siberia di anni anche precedenti, o come in Libia oggi o nella Serbia degli anni ’90) in cui per motivazioni diverse (politiche, economiche, religiose) gli esseri umani sono ridotti a numeri, disumanizzati, costretti all’indigenza e al lavoro forzato, uccisi per un nonnulla, malmenati e torturati. Se il canone linguistico e comportamentale di questo campi lo ha stabilito il nazismo, chiamarli Lager sarà in ogni caso legittimo e ci aiuterà a suscitare il giusto allarme fra i responsabili della cosa pubblica, delle politiche estere, per far sì che intervengano prima che le situazioni degenerino in dinamiche che la storia ci ha già proposto. Dovrebbe peraltro essere ben nota a chi usa quella terminologia la fondamentale differenza fra campo di concentramento e campo di sterminio. La parola tedesca Lager è solo una semplificazione contemporanea e dovrebbe essere ben chiarita – studiando adeguatamente senza proporre assurde analogie – l’impossibilità di paragonare un campo di detenzione di profughi in Libia con un Vernichtungslager nazista. E purtuttavia il canone dell’oppressione è stabilito, e l’oppressione dei prigionieri di oggi è reale e gravissima, suscita le coscienze e chiede che vengano assunte azioni politiche decise.
Qui sta il nocciolo del lavoro sulla Memoria della Shoah, e sulla necessità di difenderne i confini dalle continue strumentalizzazioni politiche e giornalistiche per mantenere intatto il suo valore etico universale. Solo dopo aver acquisito una opportuna conoscenza dei fatti, si potrà tentare di rispondere ai perché dello sterminio, proiettandoli a una dimensione contemporanea che ci costringa a non trasformare la Shoah stessa in un inutile monumento storiografico alla Memoria, ma che ci conduca a interrogarci su quegli avvenimenti per ragionare sullo stato di salute delle nostre società contemporanee in materia di democrazia e rispetto dei diritti umani, di salvaguardia delle libertà fondamentali e di lotta all’odio razzista.
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