È morto a Gerusalemme, il 21 giugno del 2020, Zeev Sternhell. È stato uno dei più grandi storici e studiosi del fascismo degli ultimi 50 anni. In ricordo di un grande intellettuale, e di un uomo straordinario, ripubblico un mio articolo scritto per “Keshet” nel 2008 e allora pubblicato col titolo “Zeev Sternhell e la transizione dell’Occidente” e il sottotitolo “Un pacco-bomba contro l’illuminismo”. La morte di Sternhell, peraltro, avviene nel pieno di una nuova cesura, se possibile ancora più profonda di quella che faceva da sfondo storico per questo articolo che forse, proprio per questo, riesce ancora a parlare al presente.
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Ci sono fatti che illuminano il tempo in cui succedono, e altri che ne sono illuminati. Il recente attentato all’incolumità di Zeev Sternhell, al di là delle fortunatamente lievi conseguenze che il settantacinquenne professore israeliano ne ha patito, appartiene a entrambe le categorie. Le coniuga anzi in una sola, come capita ai fatti simbolici che si verificano in epoche di cambiamenti sociali, economici e culturali. In una parola, nei giorni che si ricordano lungo i secoli per avere registrato passaggi storici irreversibili, di quelli che dividono il prima dal dopo.
Quando nel settembre del 2008 Zeev Sternhell riceve un pacco-bomba nella sua bella casa di Gerusalemme, in un quartiere residenziale immerso nel verde e in cui a chi scrive è sempre sembrato assai facile perdersi, il mondo occidentale sta per svegliarsi definitivamente dalla transizione iniziata, suo malgrado, l’11 settembre del 2001. Allora le polveri delle Torri gemelle, del tempio del potere economico globalizzato, invasero la scena della mondovisione con persistente densità. Sette anni e due guerre “pareggiate” piu’ tardi, sono i crolli dei grafici di borsa a sancire la fine di un mondo. Meglio: a definire l’insuccesso del tentativo di ridurre il più eclatante attentato terroristico della storia occidentale come una parentesi accidentale e tutta esogena, collocata all’interno di un percorso lineare. In questo schema interpretativo (ma anche attivo) della realtà, lo sviluppo era rappresentato da una retta che ascende, mentre l’egemonia americana si poteva interpretare come un’enorme superficie piatta, proprio come il mondo visto da uno degli intellettuali piu’ felicemente globali della nostra epoca.
Quando Zeev Sternhell apre il suo pacco-bomba, Lehman Brothers, la più importante banca d’affari del mondo, è fallita dieci giorni prima, decine di istituti di credito subiranno salvataggi e fusioni, mentre l’onda lunga della crisi globale sta finalmente per abbattersi, dopo tante minacce, sulla vecchia Europa.
Con la piena maturità della crisi finanziaria, dunque, si definiscono contemporaneamente due elementi: la morte di un modello di globalizzazione lineare, “naturalmente” razionale, che aveva nella finanza internazionale e internazionalista, matematica e cibernetica il suo vettore e il suo linguaggio, da un lato; e la fine della parabola del modello egemonico proprio dell’America neoconservatrice reaganian-bushiana, dall’altro.
Entrambi questi crepuscoli storici – tra loro intersecati – hanno piu’ di qualcosa a che vedere con la parabola culturale e umana di Zeev Sternhell.
L’ultimo mio incontro con Zeev Sternhell è avvenuto nel luglio del 2007, un paio di mesi dopo la pubblicazione italiana di Les anti-lumieres. Nel suo ultimo, ponderoso lavoro Sternhell ricostruisce la parentela lunga delle idee, la genetica culturale delle culture reazionarie che legano l’una all’altra le due sponde dell’Atlantico. Il collante che Sternhell utilizza come lente interpretativa è la perdurante opposizione alle idee universalistiche, egualitarie e lato sensu progressiste dell’illuminismo e della rivoluzione francese.
Nella sua documentatissima ricostruzione, Sternhell trova la linea che unisce Edmund Burke a Norman Podhoretz, gli anti-illuministi contemporanei e perfino antecedenti alla “rivoluzione culturale” irradiata dalla Francia ai neoconservatori americani che dagli anni Sessanta sono arrivati al governo degli Stati Uniti. Posi, in quella occasione, un’obiezione logica che mi sembrava cogente rispetto al suo lavoro intellettuale, di cui stavamo parlando. “Se i neoconservatori sono davvero rappresentanti ultimi, in ordine cronologico, del particolarismo anti-illuminista da lei ricostruito, come mai la loro impronta internazionale più forte è stata una guerra che dichiarava di mirare (pur con tutti gli insuccessi del caso) a universalizzare proprio la democrazia e cioè, in definitiva, il portato politico e statuale figlio della rivoluzione francese?”. Il Professore mi omaggió di un complimento di quelli che si riservano ai giornalisti – “tu sai come fare domande difficili” -, ma poi smontó rigorosamente l’obiezione. Non credeva, non aveva mai creduto alla democrazia espansiva come ragione fondativa del conflitto in Afghanistan e Iraq.
Ma senza addentrarsi nelle cause “materiali” della guerra, preferì stare sul terreno che per anni aveva approfondito: quello della natura della Stato democratico dei neoconservatori americani. “Sono nazionalisti, particolaristi, esclusivi e fondamentalmente teocratici”. L’obiezione di Sternhell non era tanto storica, quanto di fondamento ideale: il modello di democrazia che puntavano a esportare era per sua natura contrario all’unico principio universalistico che, secondo lo studioso nato in Polonia e formatosi a Parigi, puó sostenere un nazionalismo illuminista, vale a dire l’autodeterminazione dei popoli. La democratizzazione del Medioriente predicata e mai davvero implementata da Bush moveva, secondo Sternhell, dal presupposto di una superiorità nazionale (per lui, allievo di Mosse, a questo si riduce la pomposa definizione di “civilta’”), piuttosto che non dalla coscienza dell’uguaglianza naturale, che unisce illuministi e giusnaturalisti.
Aveva senz’altro nell’orecchio e in testa, Sternhell, le centinaia e centinaia di pagine spese, a partire dagli anni Cinquanta (con Isaiah Berlin e tutti i suoi epigoni), per dimostrare la radicale differenza tra rivoluzione francese e rivoluzione americana. Aveva certamente chiari in testa i titanici sforzi compiuti in tal senso da Gertrude Himmelfarb, che Sternhell chiama “la gran badessa del neoconservatorismo americano”, per dimostrare che le colpe dei Lumi francesi combaciavano esattamente con i meriti della rivoluzione americana. La prima, “rivoluzione morale” che pretende di cambiare l’antropologia dell’essere umano, porta in sè – a detta del neoconservatorismo – tutti i germi dell’assolutismo e del totalitarismo; la seconda, moderata e parziale, è una rivoluzione meramente politica. Sono mirabili, anche per ironia, le pagine in cui Sternhell spiega alla Himmelfarb e ai suoi adepti che la distinzione è assai più labile, che le due rivoluzioni sono parenti strette, che lo stesso Burke – antenato nobile caro al neoconservatorismo – non si cimenta in una disamina strutturale delle differenze per evitare di essere obbligato dalla propria stessa indubbia caratura d’intellettuale a riconoscerne le affinità.
Sternhell aveva in testa tutto questo, ed evidentemente molto di più, quando non dubitava nemmeno un secondo di fronte alle promesse di democrazia espansiva delle amministrazioni americane. Riteneva non ci si potesse credere perché conosceva le parentele culturali tra gli ispiratori di quell’azione politica e la libercolistica da guerra fredda che finisce con il condannare la modernità tout court, come matrice comune di ogni violenza politica totalitaria. E chissà che forse, giunto oltre i settant’anni, Sternhell non abbia voluto anche cogliere l’occasione per spiegare – a chi non vuole o non puó capire – che cosa lui non è mai stato. Così, le pagine dedicate ai neoconservatori sono vicine, anche materialmente, a quelle in cui smonta e fa a pezzi i revisionisti alla Furet che apparentavano Lenin a Mussolini; ma anche quelli in cui contesta la stessa Hannah Arendt e le imprecisioni rischiose del suo concetto di totalitarismo, in cui la Arendt finisce con l’invertire il rapporto di causa-effetto tra negazione dei diritti dell’uomo e privazione dei diritti di nazionalità e cittadinanza. Per Sternhell, evidentemente, l’apolidia e la privazione dello status di cittadino subite dagli ebrei durante la persecuzione nazifascista sono frutto della negazione dello Stato egualitario – e illuminista – e di “uomo”; non il contrario. L’aver lungamente studiato i socialismi nazionali e le radici a sinistra dei fascismi europei non fa insomma di Sternhell il divulgatore dell’equiparazione secondo la comoda immagine che gli è stata attribuita, soprattutto nel nostro Paese, e ancora nei giorni dell’attentato da lui subito.
Quella che sta finendo, dicevamo sopra, non è solo l’epoca geopolitica segnata dal neoconservatorismo assurto al potere, ma anche l’onda finanziaria e politico-economica che in quest’epoca ha conosciuto uno sviluppo incredibile, assecondando peraltro una spinta globale che poteva certo essere diversamente governata, non solo dall’America, e che in ogni caso sarebbe stato impossibile rimuovere o bloccare. Il legame tra questo secondo crepuscolo e il ricco percorso di studioso di Zeev Sternhell è certo meno immediato e univoco, ma forse proprio per questa ragione più prezioso. Quella che si chiude (o sembra chiudersi) con il crollo verticale della finanza dorata transfrontaliera è, senza dubbio, un’epoca di grandi e crescenti disuguaglianze economiche e sociali, non sempre giustificabili con la diversità dei meriti dei diversi attori protagonisti e comprimari. Ció vale senza dubbio per le società occidentali, in cui la crescente ricchezza di pochi o pochissimi ha fatto il paio con la perdurante miseria di molti, e la montante esperienza di povertà, o di fatica, o di paura non isterica, di moltissimi.
Resta peró vero che l’internazionalizzazione irrefrenabile dell’economia industriale, e la finanza come vettore poi “imbizzarrito” e infine completamente da essa scollegato, hanno prodotto anche effetti innegabilmente positivi nelle società e nei Paesi in via di sviluppo. Se la Cina ha visto uscire dalla povertà oltre cento milioni di cittadini lo deve a quell’insieme infinito di interconnessioni materiali che per comodità semplicistica chiamiamo “globalizzazione”, mentre non c’è analista economico o politico che non sottolinei, in queste settimane, che la “nuova” egemonia americana dovrà essere contrattata proprio con il gigante (dai piedi ancora argillosi) della Repubblica popolare.
E ancora, se il prezzo del petrolio ha toccato prima del crac finanziario i 130 dollari al barile, al di là di qualche diceria non sempre ben documentata sulle colpe degli “speculatori”, le ragioni principali stanno tutte nella maggiore richiesta da parte di Cina e India, piu’ industrializzate che mai e quindi, in definitiva, meno povere di prima. Ma si puó andare perfino oltre: se nel settembre del 2008, per la prima volta nella storia, tutte le capitali africane – in molti casi raggiunte da un processo di “civilizzazione” che ha proprio in Pechino la sua capitale – vengano raggiunte dalla luce elettrica, anche di questo si dovrà pur riconoscere qualche merito alla globalizzazione. Un processo – lento, irregolare e ricco di ingiustizie e difetti perfettibili e non, sia chiaro – che ha i caratteri, o almeno presentava e presenta le occasioni, dell’universalismo, dell’internazionalismo e dell’egualitarismo: a patto di essere governato da menti politiche e da portatori d’interessi dotati di visioni, competenze e ideali forti che sono spesso, troppo spesso, mancati in questo ultimo decennio. Il rischio, tuttavia, è che questo crollo della finanza mondiale, globale, internazionale e internazionalista per definizione, travolga – assieme alle follie di un sistema autoreferenziale – anche ogni spinta all’internazionalizzazione sana e necessaria. E che alle paure di un Occidente comprensibilmente preoccupato per una ricchezza che non cresce più non puo’ più essere ridistribuita in alcun modo, alla fascinazione reattiva per la storia di Robin Hood (tanto da farlo diventare modello di tassazione statuale…), potrebbero finir con il sommarsi le speranze di praticare una ricetta semplice: quella di far pagare allo sviluppo degli altri – cinesi, indiani, africani – le debolezze e le frenate del nostro modello di sviluppo. Non è in fondo altro da questo la proposta di costruire una fortezza europea contro le tigri asiatiche, che ci alzano i prezzi dei carburanti con la loro crescente richiesta di materie prime, mentre abbassano quelli dei prodotti che noi importiamo sui nostri mercati.
(…) il tratto “sternhelliano” di questa seconda china discendente, che ha portato allo schianto della finanza e dei suoi templi piú antichi e prestigiosi. In definitiva, il pericolo di gettare ogni forma di internazionalizzazione e globalizzazione assieme alle iniquita’ che ha generato o non ha saputo lenire, magari lasciando che siano poi le paure proprie dei localismi a governare i tempi e i modi della reazione, non mi pare né remoto, né vago.
Vorrei concludere, abusando della pazienza di chi è arrivato fino a qui, tornando in Israele, in quella casa elegante ed essenziale in cui Sternhell ha ricevuto un pacco-bomba e mi ha piú volte accolto senza timore, e con umiltà e disponibilità sempre piú rare a trovarsi tra le mura dell’accademia europea.
Nell’estate del 2005, nel pieno del ritiro da Gaza, sostenni una lunga conversazione con il professore, che fu poi pubblicata sul quotidiano “Il Riformista” per cui allora scrivevo.
In quel periodo, mentre Ariel Sharon con un colpo di spugna e di coraggio cancellava dalla Striscia di Gaza il segno tangibile dell’ultranazionalismo (in grandissima maggioranza religioso) dei coloni israeliani, il parere di Sternhell mi sembrava particolarmente interessante. Perché era un oppositore storico della colonizzazione, ma anche un avversario intellettuale di Sharon e della destra israeliana. Perché è un intellettuale globalista e universalista chiamato a confrontarsi con la cuspide più avanzata dei sentimenti “no-global”, particolaristici, nazionalistici e religiosi che attraversano il suo Paese e alcune delle culture forti fin dalla sua fondazione. Mi interessava, insomma, chiarire anzitutto a me stesso un dubbio: Zeev Sternhell è un intellettuale sionista? Mi rispose più o meno così: “Se il sionismo é l’ideale del diritto di un popolo, quello ebraico, di autodeterminarsi, di avere un suo Stato, delle sue leggi e una sua terra, certo che sí. La guerra d’indipendenza del 1948 non è altro che questo: la battaglia di un popolo per la difesa di un suo diritto universale e veramente illuminista, quello di essere padrone del proprio destino, esattamente come gli italiani, gli americani, i polacchi e i palestinesi”.
In queste parole ho sempre voluto leggere la summa culturale di uno tra i più importanti intellettuali degli ultimi trent’anni. Ma anche, senza dubbio, la cifra morale di un uomo raro.
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