Arne Lygre: nei fiordi, senza meta

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3 Agosto 2020

«Bello scoprire che a luglio, a Roma, c’è voglia di drammi norvegesi». Così, con la consueta ironia, Giacomo Bisordi presenta lo spettacolo che di lì a poco sarebbe iniziato all’Argentina. Ed è un piacere trovare questo giovane regista, che abbiamo visto spesso, come assistente, a fianco di vari maestri, prendersi finalmente il palcoscenico principale della capitale. Siamo ancora in una fase di studio, di “prova aperta”, come ribadisce lo stesso Bisordi nel suo breve saluto introduttivo, ma valeva la pena essere in sala per vedere nascere, appunto, uno spettacolo indubbiamente interessante. Parlo di Uomo senza meta, scritto da Arne Lygre nel 2009 (qui con traduzione di Graziella Perin), prodotto dal Teatro di Roma. Autore poco frequentato da noi – ci sta lavorando anche il bravo Jacopo Gassman per la prossima edizione della Biennale TeatroLygre è piuttosto apprezzato in Francia e all’Estero. E giustamente direi, perché la sua è una scrittura affascinante, avvolgente, metafisica e realissima al tempo stesso. Scrittura semplice ed essenziale, quasi materica, vien da dire, capace di aprire volute misteriose, affascinanti derive simboliche che ben si collocano nella tradizione scandinava inaugurata da Ibsen e Strindberg e poi sapientemente rilanciata da giganti come Lars Noren o Jon Fosse.

Bisordi, dunque, agguanta il palcoscenico, lo usa plasticamente – e credo a costo scenografico pari a zero – inventa profondità, altezze, piani mobili costruiti a vista dallo staff tecnico, sposta e spezza, modula e compone, dislocando l’azione dal fiordo nordico dell’originale a una metateatralità allusiva e illusiva. E qui lascia spazio al dettato del dramma, frugandone gli anfratti più misteriosi. Allora ci si trova di fronte a un gioco di rimandi, di specchi, di smottamenti nel tempo e nello spazio: di ambiguità mai veramente risolte, anzi incrementate da piani narrativi diversi e continui cambi di prospettive, da prima e terza persona (ancora da rendere fluidi), da salti temporali che danno al racconto una forza ambigua, a tratti lynchiana, incombente.

Ottobrino e Semino Favro, foto di Guido Mencari

Non sto qui a entrare nel merito della trama, ma la parabola narrativa si apre con un Pietro (Peter), ricchissimo, che vuole fondare una città nel fiordo, pone la prima pietra – va da sé – e lo ritroviamo poi a festeggiare il ventennale della città in un turbinio parentale, una corte fatta dal fratello, dalla ex moglie, da una figlia nata chissà da chi, da un socio factotum. Una piccola umanità che si stringe attorno all’uomo, arrivato alla soglia della morte, e ne succhia denari dando in cambio una sorta di solidarietà o una specie di affetto. Ma non si capisce, e forse non si capirà, se sono semplici prezzolati figuranti, che si danno da fare come in qualche Enrico IV pirandelliano, nel gioco imposto da Pietro. Personaggi che non hanno nomi propri, si chiamano e si definiscono solo con i ruoli di Moglie, Fratello, Sorella – sorella di Fratello, ma non di Peter? –, Figlia, Assistente. Come fossero figure simboliche di un Morality Play, e lui, Peter, quasi un Everyman, un Ognuno tale e quale a tanti altri ricconi accaparratori e egoisti. L’epilogo poi, spiazzante e crudo, si dipana dopo la morte del fondatore: la faticosa e aspra gestione dell’eredità non salva nessuno.

Uomo senza meta, che certo rimanda all’Uomo senza qualità di tanto tempo fa, è critica serrata a quel capitalismo che spacca le relazioni umane, è analisi cinica – sul tavolo autoptico – di uomini e donne ridotte a feroci iene, pronte a sbranarsi con sapida ironia. Arne Lygre smonta, in un colpo solo, tutta la retorica buonista di questi ultimi mesi: andrà tutto bene? No, anzi.

Complice un cast di livello, lo “studio”, la “prova aperta” è già quasi spettacolo, imbastito, certo, anche tenendo conto delle necessarie “distanze”, e da approfondire, ma ci sono i segni, tutti, di un lavoro di qualità.

Francesco Colella, foto di Guido Mencari

Nel talento disinvolto di Francesco Colella, sempre più bravo, la figura di Pietro assume i caratteri di un romantico mostro, visionario e spaventato, generoso e cinico. Accanto a lui, è quasi un beckettiano Clov, il fratello interpretato dall’ottimo Aldo Ottobrino, che rivela la sua natura nel finale. Brave l’algida Monica Piseddu, nel ruolo della ex moglie, e Camilla Semino Favro che dà toni di tensione e nervi al personaggio di Sorella. Vibrante ma ancora manierata Anna Chiara Colombo come Figlia, mentre Giuseppe Sartori è un solido Assistente. Si devono affiatare e amalgamare ancora un po’ tra loro, respirare al meglio negli angusti spazi del testo. La regia non è invadente, orchestra bene, in modo rigoroso. E dunque aspettiamo fiduciosi la crescita di questo Uomo senza meta, lavoro che potrebbe tendere non a maggior chiarezza didascalica, semmai ad un ulteriore suo intorbidirsi, verso quei climi nebbiosi (della terra come delle persone) che sono le brume profonde dell’animo umano.

 

(L’immagine di copertina è di Guido Mencari)

TAG: Aldo Ottobrino, Anna Chiara Colombo, Arne Lygre, Camilla Semino Favro, Francesco Colella, Giacomo Bisordi, Giuseppe Sartori, Henrik Ibsen, Jon Fosse, Lars Noren, Monica Piseddu, Teatro di Roma
CAT: Teatro

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