Arturo Cirillo e la “Lunga giornata verso la notte”
Ha viaggiato come Salgari, il regista e attore Arturo Cirillo, nella sua esplorazione pluriennale della drammaturgia americana. Ha incontrato gli Stati Uniti senza solcare l’oceano, rimanendo non solo in Italia, ma claustrofobicamente chiuso in quella gabbia della mente che è la famiglia, l’eterno nucleo incandescente delle relazioni personali e familiari.
Non c’è bisogno di visitare la sterminata provincia americana, non serve confrontarsi concretamente con il mito dell’American Dream, per capire le sfumature, le sottigliezze, i dolori, i sogni degli esseri umani. Dopo gli impeccabili e bellissimi Zoo di vetro di Tennessee Williams e Chi ha paura di Virginia Woolf?, (ne scrivevo qui) di Albee, ecco dunque, a chiudere la trilogia, un intenso e cupo Lunga giornata verso la notte di Eugene O’Neill, prodotto da TieffeTeatro, che, dopo il debutto al Menotti di Milano è approdato per poche repliche al Teatro Nuovo di Napoli ed è ora in tournée.
I temi di O’Neill sono vicini, strettamente legati a quelli trattati dagli altri due grandi drammaturghi per epoca storica, per sensibilità poetica, per prospettiva. Il coacervo di pulsioni e frustrazioni, di passioni e fallimenti di personaggi qualunque, colti in momenti di deflagrazioni, di esplosione e scontro. Sempre molto attento alle dinamiche psicoanalitiche, O’Neill attinge a piene mani alla propria vita, tanto da poter definire addirittura autobiografica questa storia che si ambienta agli albori del secolo scorso, nel 1912 ma è stata scritta nel 1942. Ed è nota la vicenda dell’opera: proprio per la grande adesione a quanto vissuto dall’autore, che semina rimandi esistenziali in quasi in ogni battuta, O’Neill chiese di non pubblicare Lunga giornata se non postuma, non prima di 25 anni dalla morte. Così non avvenne, e il copione anziché rimanere segreto, fu messo in scena solo tre anni dopo la scomparsa dell’autore, nel 1956.
Ma al di là degli aneddoti, quel che preme, in questo testo, è l’affondo in un mondo senza speranza, devastato, in cui gli appigli vengono solo dal whisky o dalla droga. Quattro individui, quattro solitudini: padre madre e due figli. Si rimpallano storie passate, i ricordi si intrecciano con gli insulti, la malattia mentale o fisica è la realtà da negare o dove sprofondare, in un interno borghese di raro squallore. I tre uomini dipendono dalla bottiglia, la donna si fa di morfina. Per il resto ci sono solo le parole a tenerli su, a dargli ancora slanci di vitalità, di presenza. Parole continuamente fraintese o negate, offese lanciate e ritirate, bordate devastanti subito smentite: parole come pietre, parole che sono armi con cui provare ad annientare l’altro o se stessi. Un dolore straziante.
Cirillo dà una chiave smaccatamente teatrale. I quattro attori entrano in scena e si siedono a specchi da camerino, di quelli con le lampadine tutte intorno. Sono e siamo dichiaratamente in una metateatralità che fa da cornice al tutto, come è spesso nel teatro del regista napoletano: scelta legittimata, inoltre, dal fatto che i protagonisti di questa storia sono impregnati di teatro. Il padre è un attore che forse è stato bravo, così come il figlio maggiore, il cui talento è invece messo costantemente in discussione. Allora, nella prospettive della mise-en-abyme, la partitura testuale supera la pesantezza del (melo)drammone, va ben al di là della trama: sfuggendo al naturalismo, o al verismo, nella sua conclamata veste di gioco teatrale, Lunga giornata diventa metafora. Di cosa?
Della condizione umana certo, ma non di allora: di oggi. Non stiamo più parlando dell’America del 1912, né di quella dalla Seconda Guerra Mondiale. E anche il piano autobiografico o psicoanalitico di O’Neill slitta in altro. Qui si tratta della fuga dalla nostra realtà, dell’impossibilità di essere in questo tempo, in questo presente. Ovvero del fallimento borghese.
Abbiamo di fronte quattro ambigui personaggi. Io non so se sono dei mostri che vorrebbero sembrare migliori di quel che sono, che mentono e si prevaricano vicendevolmente, oppure – come lo spettacolo mi ha suggerito – se sono, o meglio erano, belle persone, esseri umani che avevano, avrebbero potuto avere, una vita diversa. Il teatro per il padre e il primogenito, la musica per la madre, la poesia per il figlio minore malato: le arti sono, erano presenti, in quella famiglia, come slancio vitale, come attenzione alla bellezza. In effetti, i quattro si amano, si cercano, a loro modo vorrebbero proteggersi e non ferirsi. E invece si massacrano. Non possono non essere, ormai, dei mostri. Ecco, dunque la metafora di cui dicevo: persone normali, addirittura belle, che si sono ridotte al niente, alla grettezza della dipendenza, alla violenza senza scampo. Soffrendo come cani. Amano e soffrono, vorrebbero vivere e soffrono. Si svendono, si aggrediscono. È la fine della nostra umanità che fu un tempo illuminata, è la fine di un mondo che sarebbe potuto andare altrove. Di un mondo come l’avremmo voluto e invece non è.
Non credo che la regia di Cirillo abbia cercato questa condanna politica e sociale del contemporaneo, ma il teatro – quando è bello, quando è ben fatto – apre infiniti spiragli, chiavi di lettura. E questo spettacolo lo fa, merito anche dei quattro interpreti. Arturo Cirillo che ormai giganteggia in scena: con quel suo modo aspro, presentissimo e distaccato, evoca il miglior De Filippo tragico. Accanto a lui la potentissima Milvia Marigliano: magistrale nel recitar svagata, con una partitura di gesti – come si tortura le mani, come si sistema i capelli, come muove il capo – e un ventaglio di toni capaci di far intuire sempre il magma ribollente e nascosto nel profondo dell’animo. Rosario Lisma è il figlio maggiore: dà corpo a un uomo complesso e complessato, dai mille risvolti, e tocca apici interpretativi quando fa del suo personaggio un ubriaco lucidissimo, non manierato, con una dizione solo lievemente impastata, rallentata di un centesimo di secondo, che dice tutto. Infine il bravo Riccardo Buffonini, che rende il giovane figlio malato una creatura sensibile e scontrosa, minata più nell’animo che nel corpo.
La scena austera e essenziale è di Dario Gessati, e le ottime luci di Mario Loprevite illuminano i costumi senza tempo di Tommaso Lagattolla.
Un commento
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Ho amato questo testo come pochi altri. Avevo 18 anni quando lo vidi al Valle di Roma, mi pare, non ricordo bene il teatro, con Renzo Ricci, Eva Magni, Giancarlo Sbragia e Glauco Mauri. Possiedo un dvd bellissimo con Laurence Olivier. In inglese l’atmosfera è ancora più cupa che in italiano. Cercherò di non perdermi questo spettacolo. Grazie, Andrea Porcheddu, per avermelo segnalato.