“Coprifuoco”! È nato il teatro digitale
Il teatro? È finito dentro una magic box. Un computer o una tivù. Messo all’indice come un possibile focolaio di Covid 19, e privato con il lockdown della propria ragione di esistere _ il rapporto diretto con gli spettatori _ ha tentato con risultati alterni di rigenerarsi in rete. Fermo restando che è di vitale importanza riaprire al più presto i luoghi di spettacolo, le alternative in grado di andare oltre la mera videoregistrazione di un evento scenico, sono al momento ancora dei fiori rari. Difficile d’altra parte per un teatrante trovare in sé, di questi tempi, la giusta serenità nel sostituire la presenza in scena con lo streaming, oppure di utilizzare i programmi di connessione telematica, da “Zoom” a “Meet” per dare via a un teatro digitale. Che possa permettere cioè una diffusione della scena per via web o televisiva. Per progettare il nuovo occorrono d’altra parte calma e lucidità. A una prima ricognizione lo stato della ricerca su tecnologie e scena _ resa possibile in via teorica dalla lunga pausa forzata della pandemia _ appare infatti esigua di occasioni pure se non mancano le eccezioni. Il settore è stato abbandonato a se stesso ed è disarmante osservare come, ad esempio, sia mancato un vero sostegno da parte dei media pubblici. Da quanto tempo non si vede del buon teatro in televisione, ripreso in maniera contemporanea e non convenzionale? Non si gira e neanche se ne parla. Ai non addetti ai lavori sembra complicato capire i bisogni e le necessità di un comparto come questo. Accade poi che un ministro della Cultura, Dario Franceschini, si lanci verso improbabili Netflix all’italiana _dove dovrebbero lavorare registi e compagnie non si sa bene come e quando _ scordando l’esistenza di una attrezzatissima Rai che da anni avrebbe dovuto aprire le porte di qualche sua rete a teatranti e registi di ultime generazioni puntando sull’innovazione dei linguaggi.
Per rintracciare esempi di livello su uso di tecnologie, multimedialità e rapporto con la scena, si deve andare a ritroso fino agli anni Ottanta, a quello che venne battezzato come Teatro Immagine. Per citare alcuni dei più celebri esempi, Bob Wilson con i suoi imponenti e straordinari “Einstein on the beach” del 1976, ripreso poi nel 2012, “Civil Wars” e “The Golden Windows” del 1982. Particolarmente interessante e quasi paradigmatica è l’opera del canadese Robert Lepage che nel 1985 porta in scena a MilanOltre il monumentale “Trilogie des Dragons” o “I sette rami del fiume Ota” (1995) per ricordare il bombardamento americano a Hiroshima. Come afferma Salvatore Margiotta in “Attore e macchina scenica nel teatro” (in Acting Archives Review) il vero fine di questo artista “è quello di dar luogo a una perfetta integrazione tra tecnologia e macchineria”.
Alcune sequenze dello spettacolo teatrale “Einstein on the Beach” di Bob Wilson ripreso il 2012
E Anna Monteverdi in “La scena trasformista di Lepage” specifica che il regista “costruisce una macchina teatrale che funziona complessivamente a partire proprio da una perfetta integrazione della tecnologia…. nell’intero apparato drammaturgico, recitativo, sonoro, scenografico e concettuale dello spettacolo. Una tecnologia poco sofisticata ma molto leggera dà vita infatti _ così osserva la studiosa _ ad un nuovo ambiente “contrainte” per l’attore e suo doppio elettronico”.Un estimatore di Lepage in Italia è stato Giacomo Verde, scomparso lo scorso anno che sul teatrante canadese girò un documentario “La faccia nascosta del teatro” in collaborazione con la studiosa Anna Monteverdi. Verde è stato uno straordinario pioniere nello sperimentare in Italia l’incontro tra scena e tecnologie aprendo una strada importante nel videoteatro come nella videoarte. Al suo attivo ha decine e decine di collaborazione e una instancabile attività di seminatore di progetti originali e seminari in tante parti d’Italia (dall’Accademia di Belle arti di Venezia all’Aldes diretta da Roberto Castello).
In Italia, in questo stesso periodo sono da ricordare le invenzioni dei napoletani Falso Movimento per l’originale uso del croma key nel restituire in video un innovativo e potente atto teatrale, “Tango glaciale”, regia di Mario Martone: non mera ripresa dello spettacolo bensì la realizzazione di un’opera digitale autonoma. Fedele ma diverso allo stesso tempo dall’evento costruito per il palcoscenico. Un’opera geniale che ha fatto da battistrada. Sono poi fondamentali gli allestimenti costruiti da Giorgio Barberio Corsetti, già Gaia Scienza, in tandem con il milanese Studio Azzurro del grande Paolo Rosa, in “Prologo a Diario segreto contraffatto” (1985), “Correva come un lungo segno bianco” e “Camera astratta” (1987) tra gli spettacoli che hanno segnato emblematicamente la scena ridefinendo il rapporto tra spazio e luci, corpo dell’attore e tecnologia, immagine e presenza sul palco.
Non vanno dimenticati inoltre gli esempi e le teorizzazioni del compianto critico militante Giuseppe Bartolucci, padre dell’avanguardia a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta in Italia, periodo caratterizzato da “una straordinaria quantità e qualità di forze in campo” come ha osservato il critico e studioso di performing media Carlo Infante in “Performing Media – La nuova spettacolarità della comunicazione interattiva e mobile” (Novecento, Gec, 2004). In quel contesto, osserva ancora “si rispecchiò la conflittualità e ancor di più l’antagonismo di cui era pervasa la società italiana, liberando però energie che proprio grazie a ciò fecero del teatro più di un’arte: un atto di sfida, un comportamento diffuso, un linguaggio collettivo, un modello immaginario, un contagio”. Un teatro, quello sostenuto da Bartolucci, che si poneva in modo rivoluzionario rispetto alla scena borghese di quel tempo. Recensendo l’opera “Testi Critici 1964-1967” di Bartolucci stesso curata da Valentina Valentini e Giancarlo Mancini per Bulzoni editore (2007) Oliviero Ponte Di Pino evidenzia come per Bartolucci gli elementi della “scrittura scenica” fossero “tanto le parole quanto l’immagine, tanto il testo corporeo quanto il movimento, tanto gli oggetti quanto l’ambientazione; e i materiali erano drammaturgicamente sia in stato di frammentazione che di deformazione, sia di provenienza pittorica sia cinematografica, oltre che musicale e architettonica. L’insieme non procurava una contaminazione di generi, né era una forma di interdiscipliarietà; esso costituiva una modalità tutta italiana e originale rispetto alla tradizione italiana, di rivoluzione rispetto al passato del teatro italiano”.
Sono concetti sulla cui attualità è importante riflettere per rintracciare punti di riferimento ideali e ispiratori di un teatro che, superato il perimetro del palcoscenico voglia confrontarsi con la realtà della Rete. L’uno non esclude l’altro. Anzi può essere momento di arricchimento e conoscenza artistica ed espressiva. Tornando all’utilizzo del video e delle immagini negli anni Ottanta queste entrarono così prepotentemente in scena in performance e spettacoli di diversi gruppi. A cominciare dai Magazzini Criminali, da “Punto di rottura” a “Ebdomero” fino a “Crollo nervoso” ai fiorentini Kripton e altri esponenti di quella che si sarebbe poi definita come Postavanguardia o Nuova Spettacolarità, celebrata in rassegne come “Paesaggio metropolitano” (a Roma 1981): un modo di far teatro e una sensibilità che è rimasta a lungo sommersa per emergere a tratti e con esempi anche eclatanti come il videoteatro a cui venne dedicato un festival a cura di Carlo Infante (nel 1985 all’interno di “Opera Prima” di Narni e poi diventa rassegna autonoma nel 1987, “Scenari dell’immateriale” nella edizione intitolata “La scena interattiva”). Di fondamentale importanza è anche e soprattutto Marcel-lì Antunez, fondatore della formazione teatrale catalana Fura dels Bauls, uno degli artisti più conosciuti per l’uso delle tecnologie digitali che ha “coniato il termine Sistematurgia, intesa come complessità delle relazioni tecnologiche agite da un performer in un inedito contesto scenico, attraverso una drammaturgia basata sull’integrazione con i sistemi digitali” (da Urban Experience 2014).
“Le mouvement de l’air” dei francesi Adrien Mondot e Claire Bardainne in un clip di RomaEuropa 2015
E’ il fil rouge che andando a ritroso nel tempo si ricollega alle avanguardie storiche, al rapporto stretto tra arte e teatro, danza e passione per l’immagine. Vedi ad esempio il caso del duo francese formato da Adrien Mondot e Claire Bardainne rivelatisi al pubblico italiano nel corso di alcune recenti edizioni di RomaEuropa con le affascinanti performance “Le mouvement de l’aire”, “Cinématique”, “Hakanai”. Dice Mondot nel video che mostra alcuni frammenti de “Le mouvement de l’aire”: “La nostra ispirazione viene in gran parte dall’osservazione della natura. Cerchiamo poi di capire come mettere tutto ciò nel teatro per fargli raccontare una storia. Il nostro medium comune è quello digitale, il suo modo di sviluppare un immaginario sul palco. Questo è ciò che ricerchiamo e ci ispira: cosa può raccontare oggi il teatro servendosi della tecnologia insomma”. E Claire Bardainne precisa: “Tutto appare nello stesso momento. Sembra impossibile ma nulla è prioritario. Sulla scena cerchiamo di di creare una unione tra tutti i media: musica, immagine, danza. Lavoriamo molto a partire dall’improvvisazione con un dispositivo digitale che la permette. Nessun video preregistrato e tutte le immagini sono costruite in diretta, lasciando tutte le possibilità di interpretazione di un attore o danzatore tradizionale. Cerchiamo di fissare dei punti di incontro in cui far arrivare tutti nello stesso momento e iniziare da lì. Alla fine scegliamo e teniamo solo il meglio”.
Su questo fronte sperimentale, almeno in Italia negli ultimi tempi c’è stata una certa latitanza creativa, un incomprensibile ritardo nel rapporto tra scena e tecnologia. E la sensazione talvolta percepita, proprio in tempi di pandemia è che si rimanga quasi folgorati dal mezzo (la rete) e riluttanti nel cercare nuove forme di spettacolarizzazione. Nonostante ciò, qua e là, in questo anno di isolamento forzato si sono manifestati segnali di resistenza e incoraggiante novità. Luci accese su di un cammino certamente non facile ma necessario che al primo posto mette come vitale il bisogno di tenere aperto il dialogo con gli spettatori di sempre, magari trovandone dei nuovi. Per fare questo occorre andare oltre la mera ripresa tivù degli spettacoli sondando con coraggio linguaggi e tecnologie. Un modo cosciente o meno di ricollegarsi alle prime illustri fucine del teatro digitale del recente passato. E’ una strada che lentamente ma inesorabilmente cambierà il volto della scena costringendo i teatranti ad ampliare studi e preparazione, ridefinendo gli spazi e il modo di fare teatro. Difficile pensare che una volta risolta la pandemia si torni senza colpo ferire alla situazione preesistente. Facile immaginare che, accanto al palcoscenico tradizionale, si continuerà a utilizzare anche quello digitale: gli incontri nelle pagine dei social You Tube e Facebook, come i convegni e le conferenze sul web saranno un modo per crescere aprendo rapporti con spettatori vecchi e nuovi. E’ un fenomeno che si sta manifestando in tutto il mondo occidentale e inevitabilmente creerà cambiamenti, in termini produttivi e di fruizione.
Anziché attardarsi ancora su polemiche sterili, vediamo di prepararci per tempo. Non è un caso che il “New York Times” proprio a questa realtà lo scorso 24 febbraio abbia dedicato una intera pagina del suo prestigioso quotidiano. Illuminante infatti il reportage di Michael Paulson che è andato ad indagare quanto è accaduto con la chiusura dei teatri per Covid. Il giornalista racconta con dovizia di particolari come alcuni teatri importanti abbiano deciso di aprire immediatamente un canale sul web, prima mandando in onda le registrazioni in archivio, poi passando alla creazione di opere ad hoc. Produzioni digitali che hanno incontrato il favore di un pubblico che non coincide esattamente con quello che tradizionalmente acquista gli abbonamenti. La risposta in alcuni casi ha dello straordinario. All’Irish Repertory Theatre ad esempio, nell’arco di undici mesi sono state aggiunte nove produzioni. Sono stati staccati 25 mila biglietti virtuali: l’ingresso è libero per quasi tutte le repliche ma si può optare per una donazione. Esattamente il doppio del loro pubblico abituale. Nei fatti è stata raggiunta una audience che mai l’Irish si sarebbe sognato di avere.
Al Pubblic Theatre di New York celebre per i suoi allestimenti shakespiriani hanno programmato repliche di spettacoli e messo in cantiere dei radiodrammi. Il risultato è stupefacente: oltre 700 mila spettatori. Un pubblico fatto di spettatori di tutti gli stati americani e altri da 68 Paesi di tutto il mondo. In California la Jolla Playhouse ha visto il suo pubblico levitare per sei, passando dalle centomila persone della stagione tradizionale ai 640 mila spettatori che seguono la programmazione digitale. Naturalmente questa genera meno entrate economiche (i biglietti sono quasi sempre gratuiti o ad offerta oppure hanno una tariffa irrisoria). Ma c’è chi sta guardando più lontano come lo Steppenwolf Theatre di Chicago che ha fidelizzato 2500 spettatori con una sottoscrizione di 75 dollari a persona: si tratta prevalentemente di pubblico giovanile che prima d’ora raramente si era recato a teatro. Diversi si sono rimessi a lavorare. Come il Theatre Squared di Fayetteville che, applicando i protocolli anti Covid, ha messo in scena in un anno dieci diverse messe in scena, metà delle quali filmate con nuove soluzioni. E ci sono già alcune realtà che stanno investendo in tecnologia per innovare gli allestimenti (è il caso del Ma Yi Theater e il Dixon Place) mentre si moltiplicano i luoghi dove per la prossima stagione stanno già annunciando cartelloni misti di spettacoli “on stage” e sul web.
Tornando dalle parti di casa nostra, ecco una ricognizione su differenti realtà teatrali che hanno deciso di rispondere all’offensiva pandemica con spirito positivamente creativo adottando originali soluzioni rispetto a uno stop forzato condizionante dal punto di vista materiale e psicologico. Una di queste, eccezione davvero singolare in grado di aprire interessanti soluzioni è stata messa in campo dal debutto online proposto dal regista napoletano Davide Iodice per il suo “Extra Body”. Piccola cronaca dietro l’evento: il lockdown deciso lo scorso ottobre ha colto di sorpresa il teatrante napoletano che in tandem con Nunzio Caponio in una residenza tenutasi durante la scorsa primavera al Teatro Massimo di Cagliari (produzione Sardegna Teatro) aveva lavorato attorno a un progetto, “EmBody”o “Enciclopedia delle emozioni” nato a partire da una drammaturgia condivisa con gli attori e le attrici, rivolto a “offrire un’esperienza differente per ciascuno, declinato sulle emozioni, le paure e le personalità degli interpreti e della comunità”. Questo si sarebbe dipanato in nove atti performativi in luoghi diversi. In altre parole: il rapporto dovrebbe essere di uno a uno, attore e spettatore, con azioni allestite volta per volta in differenti location. Il top del teatro in presenza. Messo alle strette dall’impossibilità di rappresentare ecco la decisione di costruire un evento finalizzato alla fruizione web. Si torna indietro alla genesi del lavoro, riprendendo i quaderni con le annotazioni per mettere in campo un progetto completamente nuovo, diverso ma legato alla ispirazione originaria. Ecco quindi una nuova declinazione verso il digitale. Nasce così un nuovo format per la piattaforma “Zoom”. E a fine novembre la presentazione di questo inedito atto che,incanalato sulla Rete, ha raggiunto on line numerosi spettatori diventando uno spettacolo zero, nel campo della ricerca sui nuovi media nell’anno di grazia 2020.
La perfomance presentata sul web infatti si può leggere come il prologo o meglio l’evoluzione di quello spettacolo mai andato in scena (ma che sarà recuperato quando si tornerà ad aprire le sale). A quello sarà intimamente legato, anche se è in grado di vivere di vita autonoma. In “Extra body” prova digitale costruita con telecamere e ricorso ai linguaggi del cinema, c’è il disvelamento di un percorso, vengono cioè offerte dallo spettacolo dal vivo “Embody” le “tracce delle prove, gli abbozzi dei quaderni, l’articolarsi di micronarrazioni che ripercorrono il tracciato delle biografie e delle pratiche terapeutiche di esistenza”. In “Extrabody” , per pochi minuti “ogni singolo pezzo ospita un’emozione, raccontata e agita da chi, di quell’emozione, si sente uno specialista”. Ogni stanza della perfomance digitale rivela differenti rituali di verità, “donazioni immateriali dei performer attraverso i ritratti che hanno costruito”. Tutti e due atti teatrali (quello in presenza e l’altro digitale) sono intimamente legati, l’uno il rovesciamento dell’altro. Ogni quadro presenta un attore al centro dello schermo/scena. Una pletora di figure danzanti, ritratti quasi epici che paiono fuggiti via dalle pagine di un romanzo di John Irving. Appaiono in presa diretta per squarci di emozione, davanti all’occhio freddo della telecamera. Volti ripresi in modo ravvicinato, che quasi debordano dalla cornice del computer per entrare dentro casa. Sprazzi di vita fermati in un battito di ciglia. La teatralità sta nel trasferire quei grumi di emozione in un solo brevissimo istante lasciando un alone sfocato e sinistro come luci notturne su un asfalto bagnato. Gli attori sono lì e ora. Un unicum che sembra diretto a ciascuno dei singoli spettatori come partecipanti a un gioco di società. Iodice mostra in modo implacabile e senza rete una via crucis punteggiata di fulminanti apparizioni. Dodici stanze specchio dell’anima in cui gli attori disegnano la mappa della esistenza. Solitudine, vulnerabilità, angoscia, Tristezza, rinascita, rabbia, shock, estasi, empatia, concordia, compassione e panico si alternano costruendo nei gesti e nelle espressioni possibili strategie per sopravvivere. In questo atto unico la transmedialità produce una singolare visione teatrale. Non è uno streaming bidimensionale. Al contratrio. C’è profondità ed esalta gli attori in una sfida che va oltre il vuoto di una quarta parete. Stabilisce un contatto con la quotidianeità cantando chi è passato per luoghi di dolore, perdita e privazioni, come monito e invito a ricercare dentro se stessi. Si direbbe quasi che suggerisca la riscoperta di una spiritualità dimenticata fatta di complicità e condivisione, come di turbamento e rabbia. Realizzato con il sostegno della Sardinian Film Commission “EmBody” e “Extrabody” si sono avvalsi della ricerca drammaturgica e l’interpretazione di Michela Atzeni, Silvia Bertocchi, Nunzio Caponio, Francesco Civile, Daniel Dwerryhouse, Agnese Fois, Massimo Melis, Riccardo Montanaro, Silvia Piovan, Marta Proietti Orzella, Luigi Pusceddu, Enrica Spada, Maria Luisa Usai.
Una manciata di giorni dopo, durante la prima decina di dicembre, nel cuore dell’Italia, un rider in bicicletta, attraversa nella notte Bologna deserta. Pedala per i viali sgombri da automobili, imboccando strade delimitate da lunghe file di portici. Sulle spalle ha un pacco da consegnare. Siamo dentro “Consegne, performance da Coprifuoco” azione inventata dall’ensemble Kepler-452 per i giorni della pandemia. Il corridore è un attore che indossa una giubba di un servizio di delivery (solo ai corrieri è permesso circolare nelle ore notturne per consegnare l’asporto). Questa l’intuizione-reazione alla chiusura delle sale che diventa occasione per costruire attorno al canovaccio della consegna un esempio di teatro interattivo e transmediale. Il corridore/attore porta una videocamera sul casco e un’altra collocata sul manubrio della bicicletta che inviano in diretta social le immagini in movimento. Il mittente, come il destinatario (e ovviamente gli spettatori), seguono così in tempo reale su “Zoom” le elucubrazioni del ciclista. E possono ascoltare in diretta i dialoghi fino all’arrivo a destinazione. Un tocco al campanello e l’invito ad indossare delle cuffie per ascoltare un breve monologo. E poi via. Il teatro, ancora una volta, si conferma un mezzo eversivo capace di spezzare l’accerchiamento. Costretto al “confino” si trasforma in digitale per arrivare direttamente dentro le case degli spettatori. Si sorride amaro per l’azione in cui l’attore/rider diventa il trait d’union di due solitudini (il cliente e il destinatario). Durante la corsa notturna emergono le note malinconiche di “Metal Heart” dei Cat Power e “Ovunque proteggi”, dolente ballad di Capossela. Un esempio di teatro politico in grado di spiazzare e aprire più di un interrogativo. Il progetto è di Enrico Baraldi, Riccardo Tabilio e Nicola Borghesi (il rider) proposta anche in altri luoghi ha arruolato anche personaggi della scena come Enzo Vetrano e Stefano Randisi a Imola, mentre a Bologna è stato il danzatore e coreografo Marco D’Agostin e a Ferrara la danzatrice Francesca Pennini.
Scegliere di andare in scena, mantenendo la fiammella del teatro comunque accesa, in tempi di pandemia e chiusura della sale, ha del resistenziale. Testimonia in alcuni casi la passione per un lavoro, quello culturale, che porta sostegno immateriale, importante quanto quello fisico. In questa maniera la scelta del digitale, in parte dovuta come scelta potrebbe rivelarsi strategica anche a livello artistico e sociale. Come accade nei festival. Ecco così a ridosso di Natale 2020, l’edizione quattordicesima di “Teatri di Vetro” che sin dalla sua nascita ha sempre tenuto uno sguardo attento al nuovo ospitando come una chioccia progetti in divenire (stavolta segna pure il record di essere il primo interamente digitale in Italia). Si è svolto all’India di Roma, nella cittadella dell’ex fabbrica della Mira Lanza sulle rive del Tevere, per l’organizzazione del Teatro Scaleno che proprio in quei giorni di festività incerti e assediati dal virus ha scelto con determinazione di puntare tutto sul digitale.
“Dopo lo shock della chiusura a novembre, nel costruire il piano di lavorazione del festival _ Roberta Nicolai direttrice artistica della manifestazione _ mi ero posta una condizione: tentare di tradurre in video. Dovevo lavorare a stretto contatto con un regista, un professionista. Doveva essere un incontro tra sensibilità, competenze e innamoramento delle immagini. Solo così potevamo provare a salvare l’opera. Dello scorso anno (edizione 2019 ndr) la memoria più tattile era lo spazio: come era stato disegnato, giorno dopo giorno, a partire dai lavori degli artisti. Come lo spazio era stato illuminato, oscurato, attraversato dagli spettatori, mai convenzione, ma sempre materia vivente: piante sceniche, punti di osservazione, prossimità si erano articolate nell’arco di una settimana, rivelando angoli, aperture, ponendo pareti, ponendo visioni. Gli spettatori difficilmente stanno su poltrone nella sala, a volte su sedie, attorno all’azione, a volte seduti sul palco, piante irregolari per visioni stabili, oscillanti, Lo spazio, quel grande assente che abbiamo evocato, meditato e invocato. Al regista Michele Cinque (che ha seguito tutte le videoregistrazioni degli spettacoli ndr.) ho detto: dobbiamo essere specifici, per ogni singolo lavoro. Proviamo a ricostruire e tradurre la mappa di visioni e “oscillazioni” che è “Teatri di vetro”. Lui: “pensiamo a set diversi per i quattordici lavori che dobbiamo riprendere”. E ora so che per tutta la settimana non abbiamo mai tenuto una telecamera nel punto in cui è stata, gli attimi prima o il giorno prima. Quattordici lavori, altrettanti set”.
Il tutto senza rinunciare né alla qualità né all’entertainment, mostrando anzi, in alcuni casi, le enormi possibilità dei media di raccontare attraverso le tecnologie. Nel cartellone ideato dalla regista e direttrice artistica Roberta Nicolai sono stati presentati i lavori di Paola Bianchi, Alessandra Cristiana e Chiara Frigo. E poi Andrea Cosentino, Piccola Compagnia Dammaco, Fabritia D’Intino, Giuseppe Vincent Giampino e Riccardo Guratti, Gruppo Nanou, Dehors/Audela, Opera Bianco, Cignoli/Insana, Ada, Alessia Damiani, Greta Francolini. Ogni evento è stato ripensato nella forma migliore per essere mostrato in modo digitale, evitando cioè di fare ricorso alla camera fissa ma riprendendo con più telecamere e in modo cinematografico (ma sempre con una regia “live”) le opere più compiute. Per i lavori in gestazione si sono scelte altre soluzioni, optato per il video ad esempio come nel caso di “Deep End-La via di Lucinda” di Chiara Frigo, primo studio di un progetto di videoarte ispirato dal nuotatore di John Cheever, Neddy Merril, che, sulla via di ritorno verso casa si immerge in tutte le piscine che incontra lungo il cammino (sempre della Frigo si è assistito anche a “Post”, installazione performativa nata dieci anni fa, lavoro “visceralmente legato alla terra, nella quale la performer si immerge e riemerge senza subirla mai”). “Teatri di Vetro”, per una settimana, tra opere digitali e spettacoli in video ha offerto emozioni, inquietudini e stupore, sentimenti e poesia rendendoli condivisibili stavolta nel web. E in questo tenendo fede a quella che è un po’ la sua mission di mostrare il finito/non finito di costruzioni in corso d’opera: il modo migliore per cogliere in diretta l’intimità creativa di un teatrante o un performer.
Cartellone di pregio, come di consueto, ricco di work in progress, idee in fermento o allestimenti già maturi. E ‘il caso ad esempio di “On” della coreografa Paola Bianchi che ha messo in scena come spettacolo in video un potente atto unico dalla trama ben innestata nel flusso di ricerca delle sue opere più recenti, vedi lo straordinario “Energheia” , ancorandolo al progetto Elp (la danzatrice sta lavorando sulla memoria visiva su persone con background migratorio in Italia, come avvenne nel primo step di “Energheia” con cui ha costituito un primo importante archivio “retinico”). Incalzata dai suoni e dalle musiche del musicista creativo, inventore di scenografie sonore, Fabrizio Modonese Palumbo, e dal preciso disegno luci di Paolo Pollo Rodighiero, Bianchi, viene inizialmente incapsulata in uno stretto cono di luce dentro il quale ingaggia una lotta nervosa per varcare l’oscurità. Concentrando le azioni in una gestualità minima fatta di impercettibili scarti emozionali, la performer, ripresa in primissimi piani e campi medio lunghi, alterna tentativi di fuga in avanti a pose plastiche di elegante armonia che un attimo successivo, con un velocissimi strappi, vanno in frantumi. Sono le cento memorie di un corpo le cui invisibili cicatrici riemergono da una lotta aspra, giocata sul filo. Una sfida continua e senza soste con il corpo proteso ad offrire e chiedere amore mentre le braccia si rinchiudono lentamente come petali di un fiore al tramonto. Corpo al suolo che si dibatte in un cerchio, prigioniero come un uccello in gabbia che cerca la fuga. Rabbia, dolore, energia sul punto di deflagrare: e voglia di libertà.
Paola Bianchi, oltre a “On” ha portato anche il disegno di “Other Otherness” primo movimento danzato e restituito in video da Barbara Carulli e l’installazione “No Polis” spazio visivo e acustico “in cui la polisclassicamente definita come sfera politica, perde la sua essenza”: abbigliata di rosso, all’interno di un quadrato, Bianchi entra progressivamente in una dimensione rarefatta, mentre i rumori di traffico urbano vengono sostituiti da una musica ovattata segnata da bassi profondi, in sintonia coi movimenti della danzatrice, un corpo liquido in trance. Ma nelle sale deserte dell’India, diventato per una volta centro di nuovo broadcasting teatrale, prendono vita altri segnali e testimonianze in diretta da una scena che sperimenta anche in un momento in cui sono assenti le certezze. Preziosa la presenza di Alessandra Cristiani, altra danzatrice di talento, alle spalle una solida esperienza di dance butoh e un curriculum di sperimentatrice rigorosa appassionata d’arte visiva che ha influenzato la sua coreografia costruita sempre con eleganza e passione. A “Teatri di vetro” ha mostrato i passaggi di una nuova sfida: il confronto da vicino con giganti dell’arte pittorica come Bacon e Schiele e uno scultore come Rodin. Lo scavo attento nelle opere di questi artisti è finalizzato a coglierne l’essenza poetica che, riportata a sintesi con un movimento o un gesto, diventa percorso emozionale. C’è qualcosa di epico in questo impadronirsi di immagini fissate su una tela da parte di un corpo che danza. Alessandra Cristiani trasforma quei segni e quelle linee in un palpitante alfabeto coreografico trasportandoli fuori dal buio verso una emozionante dimensione spirituale. Questi nuovi lavori sono: “Nucleo” ripreso dalle suggestioni di Francis Bacon con musiche di Claudio Moneta e Iva Bittova, “Diario performativo” con musica di Moneta, “Corpus Delicti” colonna sonora di Gianluca Misiti, dalle visioni di Egon Schiele e “La questione del corpo e l’arte di Shiele, Bacon, Rodin” progetto di danza performativa.
E’ il fluire dolce di una musica carezzevole, eseguita dal vivo al piano e altri strumenti e vocalizzi di Fabrizio De Rossi a fare invece da cornice a “Musica per smemorati”, un bel pezzo metafisico di teatro musicale in video di e con Andrea Cosentino che entra in scena assieme ad un suo alter ego, un pupazzo dai capelli bianchi, soprabito color crema e sciarpa rossa, tenuto inizialmente in grembo dall’attore e poi abbandonato sulla sedia. Cosentino si lancia in un trascinante monologo tra episodi autobiografici, boutades, e storie surreali. Un viaggio teatrale e filosofico al quale la musica del bravo strumentista fornisce sponda e cornice sicura. Una carrellata tra divertissment, motivi melancolici e improvvisazioni che attraversano il tempo della memoria. Ad analizzare i conflitti dell’amore è stata la Piccola Compagnia Dammacco con “Spezzato è il cuore” che racconta, partendo dalla fine di una relazione, un menage à trois. In evidenza i destini di tre persone, dal conflitto al dolore, dal dramma alle situazioni comiche. La narrazione è sulle spalle delle due donne che raccontano il loro relazionarsi con l’uomo conteso. In scena Serena Balivo (impegnata anche in “Appunti da una metamorfosi”, altro lavoro presentato dalla compagnia) con Mariano Dammacco ed Erica Galante.
In “Alphabet Video-Movimento” il gruppo Nanou ha montato interessanti frammenti di un lavoro di ricerca coreografico iniziato nel 2017. In questo progetto il gruppo ha iniziato a sezionare una coreografia utilizzando la telecamera video. L’idea dichiarata è quella di “uscire dall’ottica teatrale” allo scopo di “individuare un linguaggio che ricerchi una diversa percezione attraverso il mezzo visivo”. L’intento finale sembra essere quello di “lasciare le riprese della coreografia per coreografare la videoripresa così che la camera possa attraversare l’azione e farne parte, diventando apertura di nuovi spazi tra vertigini e immagini”. Molto interessante è “Esitazioni avverse” di Alessia Damiani, un blob sulla pandemia. Un work in progress che allinea immagini tratte dalla tivù e nel quotidiano: dalle persone comuni a chi ha il potere politico. Inquadrature e immagini in movimento montate con un sonoro elettronico che lascia in secondo piano il suono originale. Una manipolazione intelligente che fa riflettere dando allo stesso tempo informazioni e stimoli. Un’opera completamente digitale che al pari di molte altre presentate nel corso di “Teatri di Vetro”, dagli altri gruppi e perfomer, da Opera Bianco a D’Intino, Giampino, Guratti, da Greta Francolini a Nanou e Dehors/Audela ha tenuto accesa la fiamma di una cultura che non si piega e vuol far sentire la propria voce mostrando il frutto di una vivace ricerca che non si arrende. Catapultando nei fatti “Teatri di vetro” per il bagaglio accumulato di impegno e nuove ulteriori professionalità acquisite, tra i luoghi top in Italia come zona franca di sperimentazione.
Ma c’è anche chi ha fatto un passo ancora più in là e, superando le discussioni (teatro digitale sì o no) ha puntato direttamente a coinvolgere quello che poi è, volenti o meno, il destinatario finale di chi fa teatro: il pubblico. Questo è stato il centro di una piccola ma significativa nicchia progettata dalla Rete Teatrale Aretina all’interno della programmazione della rassegna di teatro digitale Net, Nuove esperienze teatrali, creata dalle compagnie della Rete stessa non solo come unica forma di proposta teatrale possibile in questi momenti di emergenza sanitaria, ma anche con l’idea di dare continuità allo spettacolo dello “Spettatore Digitale” approfondito durante l’ultima edizione del Festival dello Spettatore, che si è chiusa alla fine dello scorso ottobre ad Arezzo, proprio in concomitanza con l’uscita del Dpcm che ha decretato la chiusura di cinema e teatri. La rassegna, composta da quattro diversi allestimenti è stata proposta così per gli “Spettatori Erranti chiama Italia”, cioè la rete che da dieci anni partecipa alle iniziative della Rta e si presenta come una comunità aperta. Un nucleo duro di spettatori resilienti e resistenti per cui è nata l’idea di utilizzare gli strumenti del digitale per scoprire e conoscere il lavoro di sperimentazione che alcuni artisti stanno mettendo in campo in questo periodo, aprendolo allo stesso tempo a tutti i volonterosi spettatori di ogni parte del Belpaese. E la risposta è arrivata entusiasta. A partire dal 21 febbraio all’8 marzo hanno aderito in tanti all’iniziativa collegandosi da diverse regioni: dall’Umbria alla Lombardia, dal Lazio alla Sardegna, aggiungendosi al gruppo originario. Organizzato e guidato da Laura Caruso e Alessandra Stanghini, appassionate e instancabili animatrici degli Spettatori Erranti, il pubblico non solo ha seguito gli spettacoli in live streaming (tranne uno, “Socrate il sopravvissuto” di Anagoor di cui è stata trasmessa una pregevole visione integrale in video) ma ha partecipato ad incontri con gli artisti, montando anche un provvidenziale foyer virtuale dopo gli spettacoli, alcuni anche con la presenza degli stessi teatranti che rispondevano alle domande.
Prima del via è stato diffuso un vademecum, battezzato “Appunti per nuovi riti di visione” con una serie di consigli utili per profittare al massimo degli spettacoli. Si va dalla esortazione di avvertire i propri familiari e conviventi di non disturbare o fare rumore durante la visione alle indicazioni su come preparare la propria postazione (dalle luci alla poltrona). Una richiesta: arrivare alla visione con un leggero anticipo per prepararsi spiritualmente alla visione e infine mandare un messaggio al gruppo _ nella chat di Zoom _ per segnalare la presenza e sentirsi connessi idealmente agli altri. Tutti di buon livello gli spettacoli proposti. Oltre al “Socrate” di Anagoor, sono stati presentati “Il gatto con gli stivali” di Kanterstrasse per Campsirago Residenza, “Genoma scenico” di Nicola Galli e “In arte son Chisciotte” delle Officine della cultura. Immaginato e creato da Marco Ferro che l’ha realizzato a Campsirago Residenza assieme a Stefano Pirovano, Valeria Sacco, Giulietta De Bernardi, Soledad Nicolazzi e Anna Fascendini “Il gatto con gli stivali. Un racconto per il digitale” è un allestimento che propone in modo ben congegnato mix di tecniche digitali e bricolage d’artista: dall’uso di una telecamera incollata ai movimenti dei personaggi ai collage di carta, sagome disegnate e oggetti di uso quotidiano. Fiaba destinata ai ragazzi è in realtà un godibilissimo ed elegantissimo spettacolo per tutti fatto di affabulazione e teatro di figura con gli spettatori attenti a non perdere nulla, dalla prima immagine sino all’ultima, condotti per mano dallo stesso Ferro in veste di narratore e manipolatore.
Inizia nel modo più classico delle favole, per trasformarsi via via in un varietà con la comparsa di pupazzi, ombre cinesi, attori reali e video che alla base compiono un ribaltamento del plot più conosciuto: l’eroe principale infatti non è un gatto bensì… una gatta. Così attorno al felino la vicenda muta di pelle e, seguendo le tracce dei Grimm, abbandonata l’iniziale versione del Perrault, recupera quella napoletana di Gianbattista Basile (“Conto de li Cunti”) dentro un turbillon di re, orchi, principesse e finti marchesi di Carabas. Si incontrano fame, povertà e ricchezza improvvisa: Tra sogno e realtà si naviga in un fantastico fatto di cartapesta e fogli di giornali, chiari e oscuri, silohuette ed ombre dove ogni attimo di teatro – grazie a manipolazioni da disegno animato, scene filmate, pop-up theatre, video e tecnologie etc… _ è un colpo di magia.
Affronta un tema di grande ricchezza e complessità, l’educazione, il solido e ben costruito spettacolo degli Anagoor, “Socrate il Sopravvissuto/come le foglie” tratto dal “Sopravvissuto”, romanzo di Antonio Scurati con innesti da Platone, Nooteboomn e Gurdjieff con Marco Menegoni, Iohanna Benvegna, Matteo D’Amore, Piero Ramella, Margherita Sartor, Massimo Simonetto, Mariagioia Ubaldi, Francesca Scapinello, Viviana Callegari ed Eliza Oanca. Accanto a questi nel video di Simone Derai e Giulio Favotto che mostra scene di ateniesi abbigliati con le tonache, il volto velato da maschere assai suggestive, al tempo di Socrate: Domenico Santonicola nei panni del filosofo greco, Piero Ramella in quelli di Alcibiade e poi Francesco Berton, Marco Cicullo, Saikou Fofana, Giovanni Genovese, Elvis Ljede, Jacopo Molinari, Piermaria Muraro e Massimo Simonetto. Regia di Simone Derai, coprodotto dal Festival delle Colline Torinesi e Centrale Fies. L’allestimento, di qualche anno fa, mostra in parallelo, in un video, gli ultimi momenti di vita di socrate circondato dai discepoli e da Alcibiade e il quotidiano, in una classe di un qualsiasi liceo di questo Paese. Tra il tempo remoto della metropoli greca e il vissuto quotidiano contemporaneo il filo inesorabilmente, s’intreccia sommando le ultime ore di vita del sofista, condannato a morte dalla Polis, così come viene rievocato nel “Fedone” dal suo più celebre allievo, il filosofo Platone, con quelle del racconto di Antonio Scurati.
Una marcia progressiva verso il dramma: la bevuta della cicuta che avvelenerà il filosofo e l’attimo in cui lo studente Vitaliano Caccia ucciderà a colpi di pistola la commissione di maturità salvando Andrea Marescalchi, il professore di storia e filosofia. I due piani narrativi sono segnati da una inesorabile confluenza di temi e segnali, stratificati da altre storie e sfasamenti temporali. L’oggi: emerge una fotografia impietosa di un interno scolastico. Un professore, Marescalchi, visto sempre di spalle, stancamente trasferisce ai propri studenti nozioni ripetitive senza andare a fondo sui grandi eccidi compiuti durante la storia anche più recente. Un flusso di norme, date e numeri che, senza passione per la verità, trasmette immagini di lontananza e frustrazione con gli studenti schiacciati dalla noia e ridotti ad automi, un docente incapace di rompere la gabbia di un sistema che non mette al primo posto la condivisione del sapere. E’ un contrasto, quello del confronto ravvicinato con Atene, che diventa emblematico e stridente nel dialogo (momento più alto dello spettacolo) tra Socrate e Alcibiade su temi riguardanti la spiritualità e la giustizia, in cui si sottolinea l’importanza del metodo maieutico al servizio della ricerca di verità e sapere. Una realtà dimenticata anche dai nostri sistemi di educazione ai quali questo “Socrate” suona la sveglia con la richiesta urgente di cambiare. Prima che sia troppo tardi.
A riportare il piacere ludico all’interno dell’agorà teatrale (digitale) è stato il coreografo e danzatore Nicola Galli e il suo ben escogitato“Genoma Scenico/dispositivo digitale” riscrittura di spettacolo live che propone un gioco assai coinvolgente tra danzatori e spettatori, questi ultimi chiamati a scegliere tra diverse combinazioni performative. Il coreografo ha sintetizzato i termini di un lessico in forma digitale compendiato in una trentina di tessere fornite per via telematica a ogni spettatore (una decina per replica). Costoro a turno potranno scegliere differenti combinazioni (sulla carta sono migliaia) costruendo una personale azione teatrale. Quali sono le tipologie che si possono mixare oltre al movimento? Luce, suono e musica. Queste comporranno una stringa che metterà assieme il numero dei danzatori prescelto, il tipo di movimento, lo spazio dell’azione, il suono e il ritmo musicale, il punto di illuminazione e persino il luogo di ripresa della telecamera e la durata. In questo modo i danzatori leggendo le tessere trasmesse al computer presente ai bordi del palcoscenico sono in grado di decodificare ed eseguire la coreografia richiesta. Un gioco teatrale interattivo che diventa puro godimento per gli occhi. Ogni performance è unica e difficilmente replicabile all’interno della stessa seance.
A far vivere in chiusura di rassegna, un’avventura partecipativa, nel miglior stile del teatro digitale sono le Officine della Cultura che invece hanno presentato una originale rilettura del romanzo di Miguel Cervantes in “In arte son Chisciotte” di Samuele Boncompagni, ricerche di Stefano Ferri e regia di Luca Roccia Baldini. Un ottimo pezzo di teatro in musica, con l’accompagnamento in diretta web live dei Solisti dell’Orchestra multietnica di Arezzo. Interpretazione puntuale delle due “Chisciotte” Luisa Bosi ed Elena Ferri, protagoniste di una lettura al femminile del Cavaliere della Mancha e del suo scudiero Sancho Panza allestita in modo fresco e contemporaneo, come un viaggio metateatrale dove le due attrici si scambiano talvolta le parti e i ruoli inventandosi anche altri personaggi in un divertente gioco di straniamento che si riferisce al nostro tempo, ai bisogni di eguaglianza e agibilità politica. Le vicissitudini del cavaliere diventano così metafora del teatro in un susseguirsi di trovate e rovesciamenti di una scena da seguire immersivamente nei movimenti della telecamera incollata dietro le attrici e, in una scenografia da microteatro dove il doppio delle protagoniste prende la forma di pupazzi. Ed è così tra pop up, inquadrature, che cambiano anche repentinamente il punto di vista, si assiste a un teatro nel teatro con stacchi di quotidianeità vera, in un intervallo in cui attori e musicisti si concedono una pausa e un bicchiere di vino. Per riprendere di nuovo in un tourbillon di emozioni, colpi di scena, teatro di figura, primissimi piani d’attrice cinematografici, ombre cinesi e figurine, seguendo il zigzagante filo rosso che lega il sogno alla vita di tutti i giorni.
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