Il parco dei sogni infranti
Ci sono tornato due volte a vedere Der Park, al teatro Argentina di Roma.
Al debutto non avevo condiviso molto, tutto mi sembrava sfilacciato, freddo, troppo carico o “pieno di senso”. Avvertivo una mole di segni, di messaggi, precipitarsi su me (e sul pubblico) ed ero frastornato, non ero capace di decrittarli, di metterli in sequenza, di tradurli in una fruizione serena. In tanti hanno subito apprezzato, altri hanno alzato il sopracciglio, altri ancora se ne sono andati annoiati.
Io ci sono tornato, per provare a capire.
Der Park è senza dubbio un lavoro complesso. La regia di Peter Stein per il Roma è un moloch, imponente e implacabile.
Lo spettacolo è frutto di una “riscrittura” che Botho Strauss – tra i più importanti dramaturg tedeschi post Heiner Müller – ha fatto nel 1983 del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare. E certo ci sono Oberon e Titania, ci sono delle “stazioni”, degli snodi drammaturgici e delle situazioni, ci sono rimandi espliciti e impliciti all’opera di Shakespeare, però il piano emotivo e quello che direi poetico-politico sono decisamente altri, vanno addirittura altrove.
Molto è già stato scritto su questo allestimento, e tanto è stato chiarito dell’operazione fortemente voluta dal direttore del Teatro di Roma, Antonio Calbi, per chiudere simbolicamente la stagione.
Allora provo a fare qualche considerazione per spiegare cosa mi abbia spinto a vedere due volte di seguito uno spettacolo certo non breve (quattro ore e mezza di durata), dal flusso capace di alternare momenti di cupo abisso ad altri quasi filosofici, generiche divagazioni da bar e stravaganti profezie.
Der Park è, secondo me, il “sogno di un fallimento”.
Dell’idilliaco gioco shakespeariano, fatto di amoretti e ripicche, di magie e trasformazioni, di inseguimenti e pianti, di battute e desideri, sembra rimanere solo il ricordo, o forse la nostalgia.
Nel percorso curiosamente filologico, Peter Stein ricostruisce l’allestimento che fece alla Schaübhüne di Berlino oltre trenta anni fa. Lo fa con altri attori – quelli che dovevano diventare la compagnia “stabile” del Teatro di Roma, ma non lo sono ancora – eppure mantiene saldo l’impianto e lo spirito della prima versione, svelando del testo una dote forse divinatoria, certo cupamente consapevole del declino che di lì a poco sarebbe scoppiato in Europa e nel mondo.
La chiave d’accesso sembra essere la “voglia”, la voglia scomparsa dell’umanità, il desiderio erotico che le due divinità del bosco, Oberon e Titania, si ostinano a volere restituire agli uomini. L’assunto – che forse poteva essere bruciante in quell’epoca – già di per sé mostra la contraddizione interna del testo: dalla Berlino di metà degli anni Ottanta ad oggi, la nostra società è divenuta sempre più una “fabbrica di voglie”, una incessante gara di desiderio-appagamento-nuovo desiderio, che si declina ovunque e comunque. La libido, si sa, è ormai a portata di mano o di social-mouse: è pervasiva.
È il “desiderio del desiderio”, di cui parlava saggiamente qualcuno, a connotare questi anni insoddisfatti. Lo sforzo inane delle due divinità, allora, tornate a mo’ di biechi esibizionisti nel parco berlinese, è dichiaratamente il primo fallimento di questa storia. Non Sisifo, per carità: quanto un declino inesorabile per spossatezza, una resa che è consapevole disfatta. Oberon si spegnerà in un candido, piccolo borghese tendente all’alzheimer; Titania finirà per essere una specie di nobile decaduta, abbandonata da tutti, piccina e pettegola, incestuosa madre di un figlio disabile, unico a ricordarle i passati splendori.
Poi tutti gli altri: Botho Strauss dispiega un esercito di falliti. Mezze calzette, ambiziosi o rinunciatari, figurette minori da Germania provinciale, pre-caduta del Muro. Non si salva nessuno.
Ecco, insomma, come mi sono spiegato il disagio della “prima”, ritrovato in modo più profondo e complicato alla replica cui ho assistito: questa storia crea disagio, disappunto, amarezza. È una corsa cinica al massacro in cui non ci sono speranze, è lo specchio cinico di una civiltà allo sbando.
C’è una donna che si svela razzista e fascista; il di lei marito, democratico e progressista, che incoraggia un ambiguo menage a trois; l’altra coppia che si trincera dietro l’amor di patria per dimenticare un diffidente rapporto; due amici sconclusionati (l’uno che svela l’incapacità di stare con le donne e la nostalgia della paternità mai avuta; l’altro con le sue battute che non fanno ridere e il suo continuo sfruculiare); e ancora i punk che non sanno nemmeno più protestate, l’artista pronto a svendersi per il successo commerciale, fino a quel ragazzo “minotauro” che chiude il sogno-incubo, frustratissimo e decadente di fronte a una cameriera voluttuosa e sterile.
Ma questo affresco corale, sociale e privato, assurge, alla fine, a simbolico, metaforico fallimento del Teatro, con la maiuscola.
Stein-Strauss piazzano in apertura un immane sipario rosso, sul fondoscena, e una trapezista caduta. Altro che “cielo sopra a Berlino”: qua c’è sabbia, e sudore, e bestemmie. È il teatro stesso che non si può fare più, almeno in quel modo. Questo spettacolo è metafora della “ricerca com’era”, è la testimonianza di un passato ancora vivo ma che non torna, è un pezzo sublime di “modernariato” anni Ottanta che denuncia – con lo struggimento di chi sa – che quel mondo non c’è più: per il dispendio di mezzi, di cast, di contenuti, di complessità.
Mi sembra questo sia il senso più profondo, frustrante e snervante dell’intera operazione. Con Der Park ci troviamo di fronte a un canto del cigno del Teatro, di tutto il teatro, non solo italiano: per costi, complessità, senso.
Stein ci ha fatto vedere com’era la scena nella Germania anni Ottanta (ed è buffo, poi, ritrovare ancora oggi certi stilemi in tanti spettacoli che vorrebbero essere à-la-page).
È la “tradizione del nuovo”, del post-drammatico, della riscrittura vibrante basata sul rapporto classico-drammaturgia-regia, capace di aprire, in quegli anni, una strada che ha ormai consumato tutta la sua parabola. Nel rendere manifesto il “sogno di una cosa”, con Stein ci troviamo davanti la desolazione dell’incubo – o lo spettro – del fallimento conclamato, incarnato da uno dei personaggi, quel Cyprian, ovvero “l’artista” che se pure finalmente prova a “liberarsi” dal servilismo ai potenti, finirà ucciso a colpi di pietra inseguendo le sue passioni nel parco.
Der Park certo è bello: un meccanismo grandioso.
Merito dello straordinario cast, che le cure di Peter Stein fa lavorare al meglio: la cosa fantastica, di questo “teatro di regia” è che si muta in un grandioso “teatro d’attore”. Sono tanti, in scena (e altrettanti fuori scena: un gruppo impeccabile di tecnici e macchinisti chiamati a gestire l’imponente complesso scenografico) e da ciascuno – dai protagonisti ai comprimari – arriva un contributo notevolissimo al ritmo e all’intensità del lavoro.
Maddalena Crippa, generosissima, con Titania dà forse una delle sue migliori interpretazioni, al pari della vibrante Medea di qualche anno fa; Graziano Piazza, con la sua sublime eleganza; la potentissima Pia Lanciotti; il magistrale Paolo Graziosi, commovente nel finale; poi Alessandro Averone, il dandy minotauro; l’ottimo Mauro Avogadro, con il suo Cyprian blasè. E ancora Silvia Pernarella, struggente nel lungo monologo della seconda parte. E con loro Gianluigi Fogacci, Fabio Sartor, Andrea Nicolini. Nel gruppo anche un nucleo di giovani attori (cito almeno l’unica donna, Arianna Di Stefano), che si destreggiano più che bene a fianco di simili colleghi.
Tutti, dunque, tengono le briglie del racconto anche ridondante, pedante, verboso a tratti inutilmente insistito, dalla natura multiforme, piena di rimandi, di citazioni (il collegamento Oberon-Prospero e Titania-Pasifae sono solo due esempi), di follie, di allucinazioni, di scarti irrequieti, di slanci poetici. Slittano agilmente da un mondo all’altro, da un linguaggio all’altro, dando vita a una plurima, fluida metamorfosi collettiva che è una mezza-maratona per chi fa e chi guarda.
Ci si può chiedere, ancora e sempre, se valeva la pena riprendere proprio quel testo o se con un simile investimento economico il Teatro Nazionale di Roma non avrebbe potuto fare altro: quel che resta, però, è il ricordo chiaro di un teatro d’arte, magistralmente allestito, come è raro vedere.
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