La città morta di D’Annunzio alla Biennale Teatro di Venezia

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24 Settembre 2020

Penso che la critica italiana – letteraria, teatrale, artistica, musicale e cinematografica – abbia da sempre, ma in modo ancora più radicale negli ultimi anni, un vizio d’impostazione: confrontarsi con il testo, con l’opera, non già partendo dall’opera, dal testo, esaminandone e analizzandone il soggetto, il carattere, la configurazione, indagando le poetiche, le intenzioni, insomma ciò che l’opera vuole dire, significare, proporre, suggerire, bensì sovrapponendo al testo, all’opera parametri di giudizio preesistenti, indipendenti dal testo, dall’opera, e confrontando l’adeguarsi o no del testo, dell’opera a tali parametri. Esemplare la stroncatura che Gian Luigi Rondi scrisse di un capolavoro come Gertrud di Dreyer. Qual era, per Rondi, il difetto del film, tale da farlo considerare un film sbagliato, un non film? Che i personaggi parlano troppo, che il film sembra più la registrazione di uno spettacolo teatrale che un vero e proprio film. Il presupposto di un tale giudizio sul film di Dreyer da parte di Rondi è che il cinema sia soprattutto elaborazioni di immagini, rappresentazione per immagini e che il dialogo costituisca di fatto un elemento secondario, più teatrale che cinematografico. Il presupposto – appunto un parametro che precede il film analizzato – è che esista il cinema che è cinema e il cinema che non è cinema. Il cinema che è cinema ubbidisce a criteri per i quali è cinema – più specificamente la rappresentazione per immagini –, mentre invece il cinema che non è cinema li disattende. Il vizio – o la fallacia – del giudizio di Rondi sta appunto nel giudicare il film non per quello che è e che vuole essere e suggerire ma per ciò che un film dovrebbe essere e quel film non è. Il vizio di una simile impostazione critica è simile al pregiudizio inconsapevole del visitatore ingenuo di una mostra di arte moderna che davanti a un’installazione esclama: questa non è arte, perché per lui l’arte è Raffaello, Caravaggio, al massimo gli impressionisti, ma non un’installazione. Ci si fabbrica un modello di ciò che dovrebbe essere l’opera e se l’opera con cui ci si confronta non corrisponde al modello, allora è un’opera sbagliata o addirittura una non opera. Ora, la critica letteraria, e quella teatrale – da noi il teatro lo si legge quasi sempre da una prospettiva letteraria più che teatrale, se dici che in fondo l’Amleto è un copione ti strangolano – da noi la critica in genere giudica l’opera sempre in base a idee preconfigurate, letterarie, contenutistiche, ideologiche, di gusto, che non s’interrogano mai sulla reale configurazione dell’opera che si esamina. Gabriele D’Annunzio, di cui Leonardo Lidi mette in scena alla Biennnale Teatro di Venezia La città morta, è da sempre stato letto, in Italia, da una prospettiva critica che non lo riguarda: sia da chi lo esalta sia da chi lo respinge. Lui stesso si è, è vero, prestato all’equivoco, ed è stato perciò letto da una prospettiva non letteraria, non teatrale, ma fino a un certo punto: nella realtà non ha mai nascosto le sue vere intenzioni. In questo condivide l’incomprensione critica con Pirandello, anche lui letto da una prospettiva estranea ai suoi scritti tanto letterari che teatrali. Perfino un critico dell’acume di Benedetto Croce, si è lasciato intrappolare dall’equivoco, e stronca il romanzo e il teatro di Pirandello per la supposta fallacia del suo pensiero e non per l’esito letterario o teatrale dell’opera. La città morta è il primo dramma di D’Annunzio, anzi la sua prima “tragedia”. Si apre con la lettura di brani dall’Antigone di Sofocle.

 

“Eros nella pugna invitto,

Eros, che precipiti le fortune,

che su le molli gote

della vergine ti poni in agguato,

che erri oltremare e per le capanne agresti!

E nessuno tra gli Immortali può fuggirti

e nessuno tra gli uomini efimeri, e chi ti ha è furente”.

 

Il protagonista, Leonardo, è un archeologo che scava nelle rovine di Micene. Sua moglie Anna è cieca e, quando si apre il sipario, ascolta la sorella di Leonardo, Bianca Maria, leggere passi dell’Antigone. Di Bianca Maria è innamorato il poeta Alessandro (che Lidi rinomina Gabriele, quasi autoritratto di D’Annunzio) un amico di Leonardo. Ma di Bianca Maria è preso anche il fratello Leonardo. Eros ha preso anche lui e lo ha reso “furente”. La firma di D’Annunzio si ascolta già all’attacco della tragedia, con quell’ “efimeri”, una effe sola, etimologicamente corretto, ma divergente dall’uso ormai stabilitosi nella lingua italiana: effimeri. Sta già in questa premessa, in questo attacco, il senso del dramma: Eros infuoca i sensi, abbatte le cime degli alberi, direbbe Saffo, e Leonardo soffre come una maledizione il “mostro” – così lo chiama lui stesso – che in lui le fa desiderare la sorella di una passione torbida, sporca, tutta carne, senza niente di “puro”, di ideale che innalzi “l’anima”.

 

 

Evidenti i riferimenti alle scoperte di Schliemann. Ma proprio questo avrebbe dovuto mettere in guardia lo spettatore e il lettore della tragedia. D’Annunzio si comporta nei confronti dell’eredità classica non diversamente da Hofmannsthal. La città morta è del 1896, rappresentata la prima volta nel 1898, a Parigi da Sarah Bernhardt e a Milano da Eleonora Duse. Pubblicata da Treves nel 1900. Elektra fu rappresentata e pubblicata nel 1903. Hofmannsthal rielabora e riscrive la tragedia di Sofocle. Nel 1905 Richard Strauss fa rappresentare a Dresda l’opera che utilizza la tragedia di Hofmannsthal come libretto. L’operazione, di D’Annunzio, Hofmannsthal e Strauss è la stessa: riscrivere l’antico per rappresentare l’oggi (Elektra è un’isterica). Dunque l’accusa a D’Annunzio di non essere riuscito a riscrivere la tragedia è sbagliata, perché D’Annunzio non vuole restaurare il teatro antico, ma usare l’antico per scrivere il moderno. L’incesto non è un ingrediente estraneo nello sviluppo della vicenda, per richiamarsi al mito antico, ma un’esigenza attuale di raccontare un impulso condannato dalla morale corrente attraverso la maschera dell’antico. D’Annunzio è consapevole di rivolgersi a un pubblico che rifiuta l’incesto come inaccettabile, contro natura, e usa il mito per affermare che invece non c’è niente di più naturale. Freud l’avrebbe abbracciato. Leonardo Lidi parte da qui. Dà per scontato che l’antico è una maschera per dire altro. Ed ecco che, come per miracolo, D’Annunzio non solo diventa comprensibile, ma attualissimo. “È così che un D’Annunzio senza freni, ridicolo e violento, si approccia al Teatro. Riscrivendo la Tragedia, buttando sul palcoscenico le sue pulsioni personali e condendole di Antigone, Ifigenia e Cassandra, di Grecia e delitti fratricidi e, ovviamente, incesti e fiumane d’amore estivo” scrive nelle note di regia. Ma va oltre, e aggiunge che il regista “sfida il testo e la nomea teatrale dell’autore per permettere a sé stesso e allo spettatore un personalissimo viaggio tra inaspettato divertimento e pura poesia”. “Che cosa c’entrano Little Tony e Bobby Solo nella prima opera teatrale del Vate?” si domanda. E che cosa c’entra lo Zoo di vetro di Tennessee Williams? Riflettiamoci. La scena rappresenta la gradinata di un campo di tennis, di una piscina, di un campo sportivo. Vi si aggira a un certo punto Giggino che vende bibite “pure”. Ecco la contemporaneità che squarcia, provocatoriamente, scandalosamente, l’Italia di oggi, la insulta, la deride. La ridimensiona e la ridicolizza. Come già si era capito con l’irruzione di Bobby Solo, della “lacrima sul viso” e poco dopo di Little Tony. I personaggi s’inventano una tragedia sublime che non c’è, un mondo ideale che è solo invenzione: la realtà sono le pulsioni elementari del sesso, che sublimate si accettano, riconosciuto per ciò che sono si negano, si cancellano, si eliminano: alla lettera, uccidendo chi le provoca. Come un atto espiatorio, di liberazione, di purificazione. Ammazzata la creatura che scatena il caos della libido, la realtà è sanata, purificata, la finzione della purezza può continuare a prevalere.

 

Ah, quando s’è chinata su l’acqua per bere…. Ho udito il primo sorso scorrere nella sua gola…. mi pareva ch’ella bevesse dal mio cuore, che in quel sorso passasse tutto il dolore sofferto, tutta l’esistenza vergognosa, e ogni conoscimento, e ogni memoria, e l’intero essere mio…

 

Per poterla riamare cosi, io l’ho uccisa; perché tu potessi amarla cosi sotto i miei occhi, tu non più separato da me, tu senza più crudeltà e senza più rimorso, per questo, per questo io l’ho uccisa…. o fratello, o fratello mio nella vita e nella morte, riunito a me, per sempre riunito a me da questo sacrificio che io ti ho fatto…. Guardala, guardala! Ella e perfetta; ora ella è perfetta. Ora ella può essere adorata come una creatura divina…. Nel più profondo dei miei sepolcri io l’adagerò e le metterò intorno tutti i miei tesori….

 

La declamazione delle illusioni può far ridere. E oggi certi atteggiamenti del D’Annunzio decadente possono fare ridere. Ma allora dovremmo ridere anche di Hofmannsthal, di Proust, e perfino di Joyce. Senz’altro di Gide. Ma se invece con un atto di umiltà leggessimo nella loro “poesia”, più che un ritratto, una denuncia dell’inadeguatezza all’oggi, della perenne inadeguatezza al presente, che sembra la condanna di tutte le civiltà nel momento del loro declino? Ecco che allora D’Annunzio ci dice la nostra d’inadeguatezza, la nostra di maschera che cerca di nasconderla. Più che mai, proprio noi italiani, vanitosi osservatori de nostro ombelico, ma incapaci di guardare oltre il proprio naso. Le bibite di Giggino sono l’attuale retorica di un paese che non si è mai voluto vedere per ciò che è. La retorica dannunziana aveva invece dalla sua di palesarsi come tale, e di denunciare dunque, per contrappasso, la miseria del reale. La retorica attuale non ci propone nessuno specchio, nessuna sublimazione, nessun confronto con un altro possibile, ma riproduce come alternativa, come sublimazione, la stessa, inaccettabile, miseria del reale, mascherandola però per un’uscita dalla miseria. D’Annunzio, Pirandello, Hofmannsthal ci dicono invece che la miseria del reale è – come bene ci spiega Eliot – “irredimibile”. E il sogno, l’illusione, la retorica non sono una fuga da questa miseria, bensì l’unico strumento in nostro possesso per smascherarla. Maschere nude ha chiamato Pirandello il suo teatro. La maschera di D’Annunzio pretende antenati più nobili della Commedia dell’Arte, addirittura i tragici greci. Ma per concordare sullo stesso presupposto: il teatro, presentandoci le maschere con cui amiamo occultarci, le manifesta appunto per maschere, e per ciò stesso incolpa, accusa, denuncia il reale che, per evitarne l’impatto distruttivo, ci costringe ad indossarle.

 

Leonardo Lidi si avvale di tre attori formidabili, Christan La Rosa, Mario Pirrello, e Giuliana Vigogna, che si alternano in tutti e cinque i ruoli previsti da D’Annunzio, aggiungendo significato alla moltiplicazione dei significati del testo. Non si perde un attimo. E si segue con partecipazione la recitazione molteplice, ora frenetica ora calma, dei personaggi, la loro identità fluida, ciascuna esondante nell’altra. La scena ipermoderna, iperrealistica, contribuisce al distanziamento tra azione e testo, alla loro divaricazione. Applausi trionfali, com’era giusto, da parte del pubblico accorso al Teatro Goldoni.

 

VENEZIA. BIENNALE TEATRO 2020. GABRIELE D’ANNUNZIO, LA CITTÀ MORTA.

22 settembre 2020

Adattamento e regia, Leonardo Lidi.

Con: Christan La Rosa, Mario Pirrello, Giuliana Vigogna

Scene, Nicolas Bovey

Costumi, Aurora Damanti

Suono, Dario Felli

Produzione Teatro Stabile dell’Umbria e La Corte Ospitale

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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TAG: teatro
CAT: Teatro

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