La corsa di Gifuni tra i gorghi di Testori

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6 Maggio 2017

Il salotto letterario di Fabrizio Gifuni conta ora anche Giovanni Testori tra i suoi invitati, ovviamente al Teatro Franco Parenti di cui lo scrittore lombardo fu anche fondatore. Partito dall’«espressionismo espressivo» di Gadda e passato logicamente ai gaddiani – due anni fa Pasolini -, Gifuni sa che il teatro, per cominciare, non ha che da esibire un personaggio monologante. Dimenticate i reading o i dibattiti sofisticati: Gifuni è qui per uno spettacolo, per condurci attraverso le viscere del teatro con la lingua di Testori, che sapeva verbalizzare la carne.

E tra queste pagine materiche l’attore romano si è immerso come forse nessun altro in Italia saprebbe fare, portando in scena le urgenze più profonde di quegli anni – Ragazzi di vita è del ’55, Il Dio di Roserio del ’54 -, sempre dalla parte degli emarginati: prima con le vite violente di borgata, adesso con testimoni del tragico presi dalle periferie dell’esistenza qui al nord. Forse più ancora che con Pasolini è con Testori che sul palco si amplifica ogni energia. È proprio Testori che sperava che il teatro italiano rinascesse «da una costola della letteratura», con la sfida di questo primo romanzo in prosa quasi illeggibile – tanto che il primo capitolo venne eliminato nel passaggio Einaudi Feltrinelli. «Una lingua cubista» dice Gifuni, per lo sparpagliamento dei piani temporali ed emotivi in un dialetto artificiale – come del resto quello di Pasolini.

Secondo l’attore ogni libro ha due porte: una per lo scrittore e una per il lettore. In entrambe qualcosa entra sempre un po’ per sbaglio: gli stati d’animo irripetibili e le alterazioni di un presente che sfugge per restare invischiato nell’inchiostro delle idee. Tracce di chi scrive a disposizione di chi legge e che in quelle pagine può ritrovare se stesso in ogni versione possibile. Così la scrittura e persino la lettura diventano performance. Ma ancora di più è a teatro che i nodi si districano, liberando per un attimo le ragioni artistiche, i motori tutt’altro che immobili di un’interiorità capace di creare. «Lo scandalo è nell’anima, non nella forma» diceva Testori, e questo Gifuni sembra sentirlo ed esprimerlo prima ancora che capirlo.

Ed è lo stesso in questa gara in bicicletta con l’io narrante e agonizzante del «servo» Consonni, vinto da una manata del Pessina che lo butta a terra per arrivare primo. Negli occhi impolverati il lago di Como, al pubblico i versi dei suoi spasimi, intervallati dall’incantesimo della folle corsa: capelli fradici, l’invadenza del sudore con la vista offuscata tra curve che inghiottono i corpi in picchiata. Le parole di Testori pronunciate da Gifuni riescono a fondere organico e inorganico: lo sguardo del Consonni passa con continuità dal corpo del compagno, con i muscoli in movimento, ai dettagli e irregolarità di un marciapiede.

E poi i rami, le foglie, il sasso fatale. Tutto è sporco, difettoso, sbagliato in quest’epica dell’asfalto: solo il lago è perfetto mentre scintilla in lontananza. E prima di rimanere istupidito per la caduta, il Consonni può elencare un esercito di sensazioni che lo circondano e lo insidiano, una lista capace di scorrere attraverso ogni gorgo dell’esistenza, che annebbia la mente e il cuore prima ancora della vista.

 

 

 

TAG: Fabrizio Gifuni, giovanni testori, Pier Paolo Pasolini, Teatro Franco Parenti
CAT: Teatro

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