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Teatro

Dialogues des Carmélites: interrogazioni

di Dino Villatico
1 Dicembre 2022

Ritorno ancora, con un corollario, sui Dialogues des Carmélites di Poulenc messi in scena al Teatro dell’Opera di Roma da Emma Dante. Una riflessione in margine, o in coda, che non vuole essere polemica, ma anzi una sorta di interrogazione: l’asprezza con oggi cui si rifiuta il confronto, in arte, su ciò che ci piace o non ci piace, sembrerebbe degna di miglior causa. In fondo, uno spettacolo, brutto o bello che sia, o che ad alcuni pare brutto e ad altri bello, non cambia la vita di nessuno. Eppure ci si scontra come se ne andasse della vita. Inutile portare a sostegno di una o della altra tesi documenti, fatti, esperienze, autorità di scrittori, filosofi, teatranti, pittori, poeti. Sembra che le più inconfutabili certezze riguardino ciò che consideriamo bello o brutto o ciò che abbiamo colto di un testo. Eppure io stesso mi sono dovuto ravvedere, più di una volta, sul giudizio espresso riguardo a opere o messe in scena che mi erano parse belle o al contrario discutibili. Un esempio tra tutti: il Tristano di Wagner messo in scena a Bayreuth da Heiner Müller. La prima volta mi parve cervellotico, fuori tema. Rivisto l’anno seguente mi si aprì una finestra nel cervello. L’invecchiamento di Tristano, Isolde che arriva nel terzo atto con una capigliatura grigia, mi si rivelarono, teatralmente, per ciò che erano, la metafora del tempo, la durata della vita. La malattia dei due amanti era la vita, il loro anelito totale era morire. L’azione, come la chiama Wagner, Handlung, passa per un inno all’amore. Ed è invece un inno alla morte. La finestra mi si aprì ascoltando l’invito di Tristano a Isolde, alla fine del secondo atto. Vuoi tu seguirmi nel regno dove non sorge mai il sole, dove è sempre notte? Das Wunderreich der Nacht, il meraviglioso regno della Notte. Isolde risponde di sì. E Melot s’infuria. Sfida Tristano. Che lascia cadere la spada. Melot resta paralizzato da quel gesto di mancata difesa. Tristano, allora, gli afferra la spada e si trafigge. Sembra una violenza al testo. E invece, del testo, coglie il senso più intimo. È Wagner stesso a suggerirglielo: “Quando Melot stende la spada contro di lui Tristano lascia cadere la propria”. Müller rende più esplicita l’arrendevolezza di Tristano, la sua decisione di morire, inscenando invece che una resa un suicidio. La malattia dei due amanti è la vita, la guarigione la morte. Ritornando ai Dialogues messi in scena da Emma Dante mi sembra che questo lato, la vocazione a morire, sia stato compreso, e profondamente. Ma interpretato come una battaglia. Interpretando l’atteggiamento delle suore come una ribellione inconsapevolmente pre-femmnista. È qui che non sono d’accordo. È, invece, una scelta di vita, per quanto possa sembrare strano che morire sia una scelta di vita, ma è un atto di rinuncia, un sacrificio, che sono di fatto una preghiera, un martirio, per redimere un mondo che ha perso la fede in Dio. Si può essere in disaccordo con la scelta, con la vocazione autodistruttiva delle carmelitane, e di fatti Emma Dante dichiara che la scelta “fa paura”, ma non è lecito negarne la motivazione religiosa, anche da parte del non credente. Kirkegaard parlerebbe di “salto” nell’atto della fede. E Kirkegaard è filosofo caro a Bernanos, che nei Dialogues mette in scena proprio questo salto dallo stadio dell’etica allo stadio della fede. Ma è proprio questo spirito religioso, questo vento di spiritualità cristiana totalizzante, quest’abnegazione che annienta ogni desiderio di vita terrena, e può sembrare orgoglio, ma è un orgoglio che sale al di sopra dell’orgoglio, per dirlo con le stesse parole di Bernanos, che mi è sembrato mancare allo spettacolo immaginato e realizzato da Emma Dante. E, si badi, chi scrive, non è più un credente da decenni, dopo essere stato da giovane un credente quasi esaltato, e avere divorato le pagine di mistici e filosofi, da San Juan de la Cruz a Kirkegaard, da Duns Scoto a Teilhard de Chardin, da Sant’Agostino allo stesso straordinario San Tommaso d’Aquino, non s’immagina quanto straordinario – Umberto Eco si laureò con una tesi sull’estetica del filosofo – , e avevo imparato quasi a memoria la Regola di San Benedetto, avevo anzi trascorso un periodo di meditazione nel Monastero di Montecassino, e per non parlare, da fanatico lettore di classici greci e latini, dei padri della Chiesa greci, più che latini, i quali, molto prima della Scolastica, avevano piegato a significati cristiani la riflessione filosofica di Platone e di Aristotele. Ecco, oggi queste letture mi servono – anche da non credente – a capire le ragioni del credente. Del resto riusciremmo a comprendere le motivazioni religiose, prima che etiche, di un Achille, negli ultimi canti dell’Iliade, quando restituisce a Priamo il cadavere di Ettore, se non imparassimo a conoscere, prima, la religiosità dei greci antichi? E si badi che Omero, insieme a Esiodo, era, per il greco, quasi quello che è per gli ebrei e per i cristiani, la Bibbia, per i musulmani il Corano, per gli indiani i Veda e il Mahabharata, per i Persiani gli Avesta. Forse, chi sa, tra gli altri, almeno un po’ di Pascal, ma letto con partecipazione, avrebbe incoraggiato una lettura meno epidermica o quasi solo psicologica, dell’opera di Brenanos e Poulenc, com’è stata, m’è parso, questa messa in scena romana dei Dialogues des Carmélites.

teatro
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