Rinnovata attenzione per il percorso artistico, intellettuale, politico di Milo Rau. A settembre, alla Mostra del Cinema di Venezia, nella prestigiosa sezione delle Giornate degli Autori, il regista tedesco presenterà in prima mondiale il suo film Il nuovo Vangelo, girato, come è noto, a Matera. Un evento speciale davvero da non perdere. Ma non solo: è in uscita, in versione italiana, il suo libro L’arte della resistenza (per i tipi di Castelvecchi), volume fondamentale per approfondire etiche ed estetiche del regista, e, in inglese, è disponibile anche il volume Why Theatre. Intanto, la rivista Stratagemmi ha dedicato un corposo e prezioso numero unico proprio a Rau e al suo teatro, assolutamente tutto da leggere.
E Milo Rau continua i suoi affondi critico-giornalistici, di riflessione articolata su temi scottanti e attuali, primo tra tutti il ruolo dell’artista, e dell’arte, nella società occidentale.
Ecco dunque, con molto piacere affidato per l’Italia a GliStatiGenerali, il suo nuovo articolo che evoca una nota frase di Beckett per spaziare, come nel suo stile, dalla politica all’economia, dalla pratica scenica a quella critica, dal Camerun al Brasile, per evocare un termine oggi più che mai attuale: solidarietà. L’articolo è lungo e corposo, richiede tempo e attenzione, ma vale assolutamente la pena leggerlo sino in fondo.
TRY AGAIN. FAIL AGAIN. FAIL BETTER.
Di Milo Rau
L’anno scorso nel sud Italia abbiamo girato Il Nuovo Vangelo con attori, attrici dei film su Gesù diretti da Pier Paolo Pasolini e Mel Gibson, ed un cast di contadini italiani, attivisti e braccianti africani.
Nella zona di Matera, Capitale Europea della Cultura 2019 e location dove sono stati girati Il Vangelo Secondo Matteo e La Passione di Cristo, si stima che vivano circa 5000 rifugiati africani – senza possibilità di movimento. Abitano in baracche, tende improvvisate e a causa della Convenzione di Dublino, non possono né andarsene altrove né tanto meno tornare indietro. Sono costretti a lavorare nelle piantagioni di pomodori e arance, per uno stipendio infimo. E con questi stessi prodotti a basso costo, i produttori sommergono gli stati da cui provengono i rifugiati, distruggendo così la loro industria agricola locale: un perfetto esempio di ciclo economico neoliberista, nel suo inesorabile cinismo.
Che cosa potrebbe essere più ovvio, quindi, se non portare il mito socialrivoluzionario di Gesù e dei suoi seguaci nel 21° secolo?
DOVE FALLISCE LA POLITICA.
Quando abbiamo accompagnato il nostro interprete di Gesù del Nuovo Vangelo, Yvan Sagnet – un tempo bracciante nelle piantagioni di pomodori e oggi attivista – in uno dei ghetti per chiamare a raccolta i rifugiati e coinvolgerli in una protesta contro il sistema che porta alla loro illegalità, ci siamo trovati a preparare una rivolta aperta – e pertanto piuttosto pericolosa – contro la situazione dominante. L’industria agricola nell’Italia meridionale è controllata dalle mafie italiane e nigeriane, che a loro volta collaborano con le principali multinazionali alimentari. I gruppi di rifugiati di diverse nazionalità sono messi l’uno contro l’altro dallo stato e dagli imprenditori. La rivolta organizzata da Sagnet, nello specifico, si è focalizzata nell’unire tutti i gruppi interessati in una battaglia comune per i diritti e la dignità: braccianti italiani e africani, prostitute, sindacalisti tradizionali, contadini autonomi, e ONG operanti a livello internazionale.
Mentre stavamo girando – il film sarà nei cinema nell’autunno di quest’anno – la Rivolta della Dignità ha permesso, tra i vari risultati, l’apertura delle Case della Dignità. La Rivolta è stata principalmente il frutto dell’organizzazione dei nostri drammaturghi Eva-Maria Bertschy e Yvan Sagnet – e, a oggi, ha contribuito a dare a circa 50 di quelli che erano performer del Nuovo Vangelo, formalmente senza casa e illegali, una residenza fissa e i documenti. Per la fine dell’anno, questo numero dovrebbe salire a 1350. Similmente, un progetto di alcuni anni fa, The Congo Tribunal, che ha creato una corte transnazionale per perseguire i crimini economici delle compagnie occidentali nel Congo Orientale, è anch’esso qualcosa di più di un progetto artistico, qualcosa di diverso da un semplice film: è un atto di autorealizzazione civile. E crea spazi di azione vitali che non erano minimamente previsti nel sistema economico globale.
“Dove la politica fallisce, solo l’arte può fare qualcosa”, ha scritto Die Zeit a proposito di The Congo Tribunal. Paradossalmente, sebbene vi siano un’economia globale, un clima globale, flussi globali di informazioni, di rifugiati, non esiste una società civile globale o, addirittura, una legislazione globale. La nostra generazione ha il dovere di crearle come se fossero un obiettivo utopico, sempre in divenire. In progetti di questo tipo – com’è adesso il caso di Antigone in the Amazon, nel quale stiamo lavorando assieme ad attivisti indigeni del movimento dei Senza Terra nell’Amazzonia brasiliana – sorge una domanda: questa realizzazione di sé quali effetti collaterali porta a coloro che sono coinvolti?
Il cosiddetto realismo globale non implica il pericolo che i già sfruttati, gli esclusi dalla legge, coloro che sono stati completamente deprivati di autostima ritornino al loro ruolo da oppressi anche nella sovrastruttura artistica del capitalismo globale?
L’ATTO DI SOLIDARIETA’ DI UNA PRODUZIONE ARTISTICA.
Io credo che, effettivamente, questo problema esista. Credo che la solidarietà o l’arte globale dovrebbero essere valutate per il modo con cui affrontano questo genere di contraddizioni: come le fanno diventare un tema; come – ed è ancora più importante – non si fermino alla mera tematizzazione o impantanate nelle reazioni narcisistiche (una tra tutte, il complesso di colpa bianco), ma cerchino invece di affrontarle, nonostante tutte le contraddizioni ulteriori.
Sì, credo addirittura che il termine arte così come noi Europei lo abbiamo definito a partire dal Romanticismo, non possa più funzionare – ed è questo il motivo per cui, ormai più di dieci anni fa, abbia proposto il termine Unst [Dal tedesco, Kunst – Arte]: una arte che non consista soltanto nel prodotto finale ma, soprattutto, nell’atto di solidarietà che quella stessa produzione artistica genera. O con altre parole: in realtà, definire progetti come Il Nuovo Vangelo come arte nel senso borghese della parola – per esempio, come si fa con un invito per un “lavoro”, con una “mostra”, con una “pubblicazione” o con una “première” – è semplicemente uno stratagemma per creare uno spazio in cui la società civile possa provare ad autorealizzarsi. Oltre al valore politico delle immagini del film (un Gesù nero, alcuni degli apostoli interpretati da donne etc.), per noi è stato importante che Il Nuovo Vangelo non fosse soltanto un film, una mostra, una performance sulla Passione, una campagna politica, ma anche che sostenesse (e continuasse a sostenere anche dopo, a riprese concluse) la prima piantagione in Italia gestita da migranti. Che venissero costruite case per i partecipanti al progetto – che attualmente vivono nelle baracche e che così potranno ottenere i documenti. Che Il Nuovo Vangelo – nonostante i suoi limiti – fosse un esempio rivoluzionario di land grabbing post-capitalista, un’opera di realpolitik per riconciliare l’idea di migrazione con quello di patria (concetti che oggi sono messi l’uno contro l’altro sotto forma di politiche identitarie).
E tutto ciò che riesce e tutto ciò che fallisce. Credo che con l’arte globale si apra un’ampia gamma di possibilità, che si possa mettere insieme ciò che è lontano, quello che in apparenza sembra del tutto scollegato: in questo caso un mito bianco europeo-mediorientale e un salvatore nero, religione e rivoluzione, immagini e realpolitik dura e pura.
«Molto meglio fare un bel lavoro sociale che della cattiva arte», ha detto una volta Matthias Lilienthal: nel realismo globale, la fantasia estetica e sociale appartengono l’una all’altra, senza alcun tipo di gerarchia. Mnouchkine, Brecht, Schlingensief, o Beuys: erano dei rivoluzionari sociali, dei politici o degli artisti? O Simone de Beauvoir? O Che Guevara? O le Pussy Riot? Sono particolaristi o universalisti? Non hanno forse unito entrambi i punti vista – rimanendo, come Srecko Horvat ha scritto ne La radicalità dell’amore, impigliati in ultime contraddizioni irrisolvibili?
Un effetto della globalizzazione è che la causa e l’effetto nell’uso del potere militare economico, ecologico o semplicemente psicologico sono separati l’uno dall’altro. Consumiamo immagini e materie prime che sono prodotte in parti del mondo che neppure conosciamo. Il sociologo Stephan Lessenich definisce le nazioni industriali europee come outsourcing societies (società di esternalizzazione): le conseguenze sociali ed ecologiche del nostro stile di vita sono esternalizzate in Africa, Medio Oriente, o nei Ghetti delle periferie d’Europa – come nei secoli precedenti si faceva nelle oscure periferie suburbane. Il realismo globale, nel contesto dei suoi progetti, prova adesso a ribaltare queste esternalizzazioni. Penso che l’arte borghese, che – per quanto sia d’avanguardia – rimane sempre arte identitaria, non abbia più senso nel capitalismo globale dove non esiste più una posizione esterna. È solo quando si inizia a percepire i conflitti distanti, apparentemente estranei, come propri che allora si entra nel flusso globale del capitale e della consapevolezza.
NUOVE INFRASTRUTTURE CULTURALI.
Gesù torna in Europa ma viene dal Camerun e i suoi apostoli sono rifugiati, contadini, prostitute, anarchici e filosofi – ma anche ufficiali di polizia, semplici cittadini italiani, attori. Il problema con un’estetica di questo tipo, inclusiva e concepita come globale, è, ovviamente, che i problemi che abbiamo prodotto all’esterno periferico dell’Impero, improvvisamente, diventino troppo interni e troppo artistici. In assenza dello Stato, talvolta ci si ritrova – almeno per un certo lasso di tempo – a collaborare con le strutture di potere mafiose locali o con élite corrotte. O si finisce a interferire in dibattiti interculturali, dove il vero potenziale di violenza si rivela solo nel progetto stesso (è il caso di Orestes in Mosul). In breve: se si lavora al di fuori dei confini sicuri del discorso occidentale ci si espone alla verità delle circostanze. All’interno del progetto così inteso ricompare la nudità del capitalismo nelle colonie, come la chiamava Marx, la stessa su cui si basa il benessere dell’Occidente e quindi, in ultimo, la nostra democrazia.
L’artista globale diventa il “capitalista della sofferenza” come ebbi modo di scrivere cinque anni fa, mentre viaggiavo nel Congo Orientale per girare la versione cinematografica del primo Congo Tribunal: il sistema e la sensibilità controllata da questo sistema sono più forti dell’intenzione ed anche della realtà stessa. Qualunque cosa uno faccia, sarà letta mediante sistemi di rappresentazione e percezione superati. Perché l’arte globale, fondamentalmente e metodicamente, si spinge troppo oltre. Questo si applica – almeno nella nostra esperienza – specialmente alle differenze di status e alle politiche identitarie: le contraddizioni generate per l’esternalizzazione di cui sopra diventano contraddizioni condivise, i dibattiti teorici diventano problemi reali, fatti trattati con distacco diventano questioni ineludibili. Questo porta inevitabilmente a conflitti, ma anche – se uno comprende i conflitti in modo dialettico – all’apprendimento reciproco e soprattutto a processi di scambio a lungo termine. Lavorare a livello globale significa creare reti di dibattito teorico e di solidarietà pratica non previste nel sistema attuale. «Questa è l’unica arte che può aiutarci», ha detto Sagnet in una conferenza qualche tempo fa, parlando a proposito de Il Nuovo Vangelo e della Rivolta della Dignità. Perché lavorare in regioni senza alcuna infrastruttura culturale – com’è statuito al nono punto del manifesto di Gent – fa emergere inevitabilmente nuove infrastrutture culturali: come nel Congo Orientale – dove non ci sono cameramen e teatri – e in Iraq, – dove non esistono opportunità per performer donne o queer di recitare – lì ne vanno create di nuove.
Proprio perché non si può ripiegare su strutture, canoni o codici esistenti – o tentare di romperli per creare la libertà necessaria – tali progetti sono sempre estremamente dispendiosi in termini di tempo e di energie. I lavori per The Congo Tribunal sono iniziati alla fine degli anni Novanta e il primo film è stato realizzato solo nel 2015; nel settembre 2020, dopo altri cinque anni, si svolgerà il secondo, girato questa volta da una società di produzione locale. Orestes in Mosul, invece, è la documentazione di un workshop sull’Orestea a Mosul avvenuto nel marzo 2019, il culmine – primo di una serie – di uno scambio che avevamo iniziato con un altro progetto nel nord dell’Iraq, Empire, nell’estate del 2016. “Il teatro non è un prodotto, ma un processo di produzione“, come afferma il Manifesto di Gent.
E solo due mesi dopo la première irakena di Orestes in Mosul, siamo finalmente riusciti a portare due degli artisti di Mosul in Europa per organizzare con loro una serie di eventi. È nata così una collaborazione tra una scuola a Bochum e l’Accademia d’Arte di Mosul e sono previsti già altri progetti di scambio tra i due istituti. E presto torneremo a Mosul per girare un film coi nostri colleghi irakeni.
UNA CRITICA INCENTRATA SULLA SOLIDARIETA’.
Naturalmente, tutto questo è invisibile a una critica che è concentrata\specula su processi a lungo termine. Le considerazioni sociali o strutturali, addirittura, sono solitamente ignorate dalla critica accademica e da quella giornalistica, perché si dovrebbe discutere “solo dello spettacolo” e “soltanto dell’artista” – e questo, naturalmente, ricade sugli artisti come una sorta di accusa. Perché, per esempio, la critica (non solo quella italiana e non solo quella di destra) si è espressa sulla decisione di Yvan Sagnet e degli altri attivisti di interpretare il ruolo di Gesù e degli apostoli basandosi su parole come presunzione, megalomania, razzismo in positivo, tokenismo? Sospetto che questa sia un’eredità – prevalentemente inconsapevole – di un concetto borghese di arte che è abituato a strutture produttive omogenee e del tutto al riparo dalle lotte sociali. Laddove gli attori hanno background ed esperienze pressoché identiche è logico che si preferisca soffermarsi solo sull’arte anziché sui partecipanti, solo sul prodotto anziché del processo produttivo. In questo modo si fa sì che le più aspre dispute interculturali come quella di Mosul, del Congo ma anche di progetti europei come Lam Gods o la Europa Trilogie non siano letti come conflitti deliberatamente creati da tutti coloro che sono coinvolti ma semplicemente come scandali che un team più professionale non avrebbe neppure permesso che accadessero.
Non c’è da stupirsi, parafrasando Brecht, che si possa comprendere tanto della produzione artistica globale da una critica così impostata quanto, da una fotografia della facciata, dei contesti di lavoro di una fabbrica: questo approccio critico si limita a dire qualcosa sulle scelte estetiche del team artistico e del critico, sul senso comune morale occidentale, sul suo vocabolario – e sulle similitudini tra questi ultimi due elementi.
Mi ricordo, per esempio, come Opera Village di Schilingensief fu liquidato come un momento d’autorealizzazione, autocelebrativo e autoreferenziale di un artista occidentale – e accadde in misura ancora maggiore con Simone de Beauvoir, quando si mostrò solidale con i movimenti per la libertà non europei. È comprensibile: essendo cresciuti in condizioni di sfruttamento globale, siamo capaci di immaginare la collaborazione tra culture diverse solo nei termini di una continuazione di quello stesso sfruttamento. Nel mainstream occidentale, la solidarietà è vista come un’invasione, la resistenza alle contraddizioni – e spesso, purtroppo, la loro rottura – come un’irresponsabilità. Noi artisti siamo complici di questo sistema basato sull’esternalizzazione, quando, per paura di finire nel baratro di un discorso identitario troppo acceso, ci limitiamo a mostrare facciate moralmente e politicamente purificate o quando non ci preoccupiamo più di una produzione artistica globale o con le contraddizioni che quest’ultima comporta.
Questo è il motivo per cui la seconda regola del Manifesto di Gent stabilisce che tutte le prove siano aperte e che tutti coloro che sono coinvolti nella produzione possano parlare con i media (o chiunque altro) in qualsiasi momento. Per rendere le contraddizioni visibili e metterle in discussione, abbiamo prodotto per esempio un film sulle prove di Lam Gods (la mia produzione inaugurale a Gent) ed un altro su quelle di Orestes in Mosul. Questi film mostrano, proprio come nel caso de Il Nuovo Vangelo, il tentativo, imperfetto, talvolta addirittura isterico, di una ricerca. Perché di fatto, ogni realismo – e quello globale in particolare – è un campo minato e profondamente discutibile.
Chi rappresenta cosa? Chi determina che cosa sarà portato in scena?
Lavorando nel Congo orientale, nei campi profughi in Italia o in Iraq, questo tipo di domande provocano notti insonni, sia per i partner locali che per quelli europei. La sostenibilità sociale, che anche dopo anni di cooperazione è ancora percepita come insufficiente, è pessima e lascia molti nel mio team esausti e scoraggiati. È incredibilmente difficile lavorare con persone con diversi background e diversi punti di vista politici, a Gent come a Goma. Si spinge e si è spinti; convinci e sei convinto; sei d’accordo fino a quando il dibattito non inizia di nuovo. In questo modo nascono legami solidali inaspettati che a volte, a causa della costante pressione interna ed esterna, possono rompersi improvvisamente.
Comunque, sono solo i punti di attrito – come il fatto allo stesso tempo meraviglioso e, per un ateo come me, discutibile che la Chiesa Cattolica ora supporti le Case della Dignità o l’attuale cooperazione tra attrici, attivisti del movimento dei Senza Terra e i movimenti di resistenza indigeni in Brasile – che fanno sì che l’arte realistica diventi vera proprio nel senso dialettico: restituendo cioè un’immagine complessa e dolorosa del mondo globalizzato. Il mio desiderio, quindi, sarebbe una critica avventurosa, creativa, basata sulla solidarietà e che affronti le contraddizioni. Una critica che si prenda il tempo di approfondire un caso, senza per forza identificarsi con esso.
Una critica che veda un lavoro artistico come un alibi, per riflettere sui contesti di cui si occupa e trovare, quindi, forse un migliore, più corretto, più preciso modo di descrivere (e forse addirittura trasformare) la realtà. Un po’ come nella famosa frase di Samuel Beckett: «Try again. Fail again. Fail better».
(Ringrazio per la traduzione Giacomo Bisordi. L’immagine di copertina è di Armin Smailovic)
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