Sade: dal boudoir al teatro
Più che il proverbiale pugno allo stomaco, questo spettacolo è una scossa al cervello. Teso, aguzzo, fastidioso, divertente: La filosofia nel boudoir, del 1795, scritto dal divin Marchese De Sade, messo in scena con coraggio e rigore da Fabio Condemi al Teatro India di Roma (dopo il debutto alla Biennale di Venezia) è davvero una pregiatissima occasione per riflettere.
Riflettere su cosa? Intanto sulla straordinaria, sulfurea, filosofica figura di Sade. Al di là di ogni pruderie e di qualsiasi bigotta morale, spicca ancora la nitida presenza di un rivoluzionario assoluto, incarcerato da tre diversi regimi, scomodo a tutti e tutto. Quel sistema di pensiero libertino risuona oggi più libertario che mai. Più avanti e più aperto di tanto supposto avanguardismo contemporaneo. A fronte della nuova ondata retriva del politically correct, delle censure, dei razzismi, dei maschilismi ottusi, Sade spalanca le porte ad un “assoluto naturale” in cui si immerge – e spinge chi ascolta – senza scampo.
Con drastica coerenza, nel suo radicale anticlericalismo, de Sade usa questo dialogo filosofico per smontare le false credenze religiose e per scardinare ogni luogo comune: non tanto per “superare” il limite (non si tratta qua di performance) ma per “essere” il limite. Non è un caso, forse, che il primo grande spettacolo creato in clima di “teatro della crudeltà”, sia stato proprio il Marat/Sade di Peter Weiss, nella regia di Peter Brook, nel 1964: all’interno del manicomio di Charenton, il marchese guida i ricoverati, di terapia in terapia, a rappresentare l’uccisione del cittadino rivoluzionario Marat, ad opera di Charlotte Corday. Sade, insomma, marca con lettere di fuoco anche la lettura di Antonin Artaud, il faro del teatro novecentesco: anche lui folle, ricoverato, sottoposto a elettroshock, “suicidato della società”, autore ribelle e libero sempre al limite di se stesso.
Concettualmente, allora, il pensiero di Sade, che muove dai meandri del sesso, del godimento, dell’orgasmo, dell’accoppiamento libero e privo di sensi di colpa, è la chiave per interrogare convenzioni e restrizioni, per svelare il vero volto della responsabilità individuale e collettiva. L’impatto è tuttora dirompente: è rivoluzione pura, ancora ammantata di quello slancio spiazzante di chi potrebbe far capire alle persone che sono, possono essere, più libere di quel che pensano.
Ma non solo: grazie alla regia di Condemi, e alla mirabile interpretazione del cast, oggi Sade dice anche altro, dice di più. Cambiando il contesto, ossia il Tempo, anche il testo muta, dando luce a domande ancora più inquietanti che abbracciano i confini della libertà individuale. Laddove, nel potente finale, il libertinaggio condiviso si muta repentinamente in violenza, in stupro, in pestaggio di chi non accetta quel “gioco”, ecco che Sade sembra dare un ammonimento, una dimostrazione coerente di quanto e come l’eccesso di individualismo possa portare a conseguenze tragiche. Gli esempi recenti, dalla cronaca nera a quella politica, non mancano: non stiamo qui a insistere, anche per non togliere pathos alla scena finale dello spettacolo. Ma nello “stato di natura”, ben rappresentato in scena, riecheggia quel Homo homini lupus, disgustosa verità, di cui la politica si è non poco servita per assurgere a Leviatano, a gestione della forza, a regime. Allora, pare ammonire il Marchese, giochiamo, certo, e senza pudori né timori, fintanto che il gioco è condiviso, compreso, accettato. Altrimenti, e Pasolini lo sapeva bene, le “giornate di Sodoma” diventano sopraffazione fascista e criminale.
Dunque, rivissuto oggi nel tramite di questo allestimento, il testo sadiano è un manifesto artaudiano sulla scena, ed è anche un rigorosissimo invito a rileggere coerentemente l’impianto morale della società vigente, a scardinarne contraddizioni e tentazioni, a svelarne – mettendo a nudo – le ipocrisie e le violenze. Cogliendone però, di già, le derive realmente patologiche, nere, di teorie libertarie (non libertine) impregnate di sistematico sfruttamento, di schiavitù economica, di tracotante violenza senza limiti, fatta di muscoli e capitali.
La filosofia nel boudoir, quindi, è un adattamento (firmato dallo stesso Condemi, prodotto da Teatro di Roma e TPE) efficacissimo del testo: funziona, è urticante nella sua algida freddezza. Lo spettacolo viviseziona il sesso, lo mostra su tavolo autoptico, non senza ironia, giocando con le bellezze di corpi perfetti, mettendo in forma di inusitato e grottesco concerto le parole di un’orgia, puntualizzando in arte una “storia dell’occhio” che sarebbe piaciuta a Bataille: chi guarda? Chi è guardato? Chi entra in questa vertigine di “estetica” perdizione e godimento?
Nella scena asettica e lineare di Fabio Cherstich, sono bravissimi gli interpreti. Dalla pregevolissima interpretazione di Gabriele Portoghese, ormai conclamato astro nascente della nuova scena, come razionale e maniacale Dolmancé; alla complessa e struggente presenza di Elena Rivoltini (anche autrice delle composizioni vocali) che si mette in gioco smaccatamente e splendidamente nel ruolo della perversa istitutrice Saint’Ange. Con loro, puntuta e prediletta allieva, la giovane Eugénie, ben interpretata da Carolina Ellero, il possente Augustin di Masco Fasciana e, nel ruolo di inattesa e commovente vittima, Candida Nieri.
Non so: ma questo lavoro mi ha ricordato l’impatto che ebbe l’allestimento di Shopping and Fucking di Mark Ravenhill dell’allora giovane Thomas Ostermaier. Senza ovviamente voler far paragoni eccessivi, però quell’approccio a temi scabrosi e impegnativi, agito da attori, consapevoli e aderenti al disegno registico; quella chiarezza di lettura del testo; quella voglia di rivoltare il presente tornano qua (seppure, naturalmente, con mezzi limitati) come percorso possibile.
Sul finale, poi, riecheggia la famosa, retorica, domanda della Simone de Beauvoir: “dobbiamo bruciare Sade?”. Nella dinamica temporale, tra condanne e esaltazioni, oggi Sade si staglia come un ammonimento, come una lezione a non dimenticare le possibilità dell’Umano. Femminista, nonostante quel che possa apparire, il suo pensiero invita ancora a una libertà che far tremare i polsi. L’immaginazione al potere, avrebbero gridato secoli dopo i suoi concittadini. E lui, il Marchese, nel chiuso della Bastiglia o del manicomio di Charenton, l’aveva già urlato in faccia al mondo.
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