Un dubbio si aggira per l’Europa
La regia, nel teatro italiano, è arrivata tardi, con affanno, faticosamente.
Merito anche di un critico come Silvio d’Amico, che si sbatteva in tutta Europa per raccontare quanto facessero i maestri d’oltralpe. E merito certo di alcuni artisti – dagli antesignani come la Duse, D’Annunzio, Bragaglia, Sharoff, la Pavlova, Salvini ai vari Costa, Pandolfi, Strehler, e ancora, Visconti, Eduardo, Fersen, Squarzina.
Pratica, non facile quella registica, spesso frutto di (auto)formazione e invenzione.
Adesso, passati ormai decenni dall’avvento dell’Avanguardia, che ha sbaragliato ulteriormente le carte, le cose sono cambiate: si parla di “regia debole”, di “post-regia”, di forme di “montaggio” che vedono il regista attuare pratiche compositive su materiali creati e disposti dai singoli attori. Di fatto, però ancora ci interroghiamo su cosa sia, e cosa faccia, il regista teatrale.
Allora vale la pena prendere spunto da un lavoro come Sweet Home Europa, in scena al teatro India di Roma, per fare qualche altra considerazione in merito.
Lo spettacolo, prodotto dallo Stabile capitolino, è frutto di un testo di Davide Carnevali, con la regia di Fabrizio Arcuri. A interpretarlo tre attori – Francesca Mazza, Michele Di Mauro, Matteo Angius – con le musiche live di Davide Arneodo e Luca Bergia dei Marlene Kuntz e la voce suadente di NicoNote a scandire fratture sceniche della narrazione.
Perché è importante, questo lavoro?
A me pare che Arcuri ed altri, tra cui certo Antonio Latella o Ricci/Forte in un binario parallelo e diverso, si stiano dannando l’anima per portare in Italia quella che sbrigativamente definirei una “regia alla europea”, ovvero quello standard di spettacolo che si vede abitualmente nei teatri tedeschi o francesi o olandesi – e oramai da un decennio: diciamo simbolicamente da quando Thomas Ostermeier è andato alla direzione della Schaübhüne di Berlino –, ma che da noi stenta assai. Possiamo citarne alcuni, non tutti giovanissimi: Jan Lauwers, Pollesch, Rodrigo Garcia, Fabrice Murgia, Jan Fabre, Castorf, Mouawad, Richter, Lagarce, Janezic, Rigola, Korsunovas, Pommerat…
L’elenco potrebbe essere molto più lungo: sono nomi che gli addetti ai lavori conoscono bene, ma che nel Belpaese arrivano solo in qualche festival.
Si possono riassumere le caratteristiche di questo teatro? Provo: interpreti che sono attori e performer disposti a mettere in gioco e in scena il proprio vissuto; attraversamenti disinvolti di classici, drammaturgia contemporanea o drammaturgia altra; corpo e sesso in primo piano; uso della tecnologia, con microfoni e video; attenzione costante all’attualità e alla realtà; presenza funzionale della scenografia; contaminazioni stilistiche; lingue diverse usate simultaneamente; coinvolgimento del pubblico; gusto pop, eccetera eccetera…
Sono banali generalizzazioni, le mie: però si può avvertire una tendenza, un segmento di “teatro” fortemente connotato da questi (e altri) stilemi.
In Italia la situazione è un po’ diversa. Da noi, si sa, ci sono alcune eccellenze registiche e autorali da esportazione; c’è la regia mainstream, i neocapocomici, ci sono i gruppi e gli eterni atipici.
Ma forse manca ancora quel taglio di lavoro che sappia toccare e far vivere le tendenze europee del contemporaneo: ecco allora, la faticosa introduzione della regia europea, sulla scena italiana: una battaglia in via di combattimento.
Così Fabrizio Arcuri, forte del suo lungo percorso di artista e organizzatore, ha puntato sul testo di Davide Carnevali. E va dato merito al Teatro di Roma di aver sostenuto lo spettacolo: è anche così che ci adeguiamo, finalmente, alla “normativa europea”.
Hanno fatto bene? Ci sono riusciti?
A me il testo, pluripremiato, non ha fatto impazzire: ha ottimi spunti, qualche guizzo, però nel voluto girare su se stesso, rischia spesso di afflosciarsi. Si disquisisce di tradizioni culturali, di identità, di paesi confinanti e belligeranti, di sfruttamento, di leggende familiari, di sesso, di pesca e coltivazione, e di un uso decisamente improprio e destabilizzante del pesce branzino. Tanta roba, non esente di banalità: Carnevali cerca di gestire la materia, mostrando senza dubbio talento. Ma l’esito suona un po’ troppo studiato, voluto, destinato a ingannare e stupire, dunque didascalico e prevedibile nell’ostentata “originalità”.
Arcuri tenta di scuotere la situazione con tutti gli strumenti a sua disposizione (scoppi, elementi che cadono dal cielo, effetti di fuoco, musica trascinante, carrelli che vanno e vengono, proiezioni) e, riprendendo quegli stilemi international di cui sopra, firma un prodotto di buon livello. Cui contribuiscono, con merito, anche i bravi attori che non esitano a lavorare su piani interpretativi smaccatamente diversi l’uno dall’altro.
Dunque non so: se questo spettacolo fosse arrivato dieci-quindici anni fa, avremmo gridato al capolavoro. Invece, mentre sedevo sulle sedie scomode di India, mi tornava in mente un lavoro che vedemmo nel 2000 a Bologna: si intitolava Hotel Europa, era prodotto da Intercult, una struttura svedese guidata da Chris Torch, con cinque coproduttori europei, la drammaturgia di Goran Stevanosvski e otto giovani registi. Era appena finita la guerra nella ex Jugoslavia, le emergenze erano brucianti. Oggi, quell’Europa smascherata dal conflitto balcanico è nuovamente in grave crisi identitaria: ma servirebbero ben altri affondi per sviscerarne le contraddizioni, servirebbero forse sguardi e modalità nuove, che non ho trovato sul piano drammaturgico. Ascoltando le metafore, le allegorie, i giochi di parola, le reiterazioni, ho avuto la sensazione, forse errata, di una fioritura tardiva, frutto di un impegno generoso, ma fuori tempo proprio nel suo voler essere contemporaneo. Mi è rimasto il dubbio che questo necessario e caparbio tentativo di aggiornare la nostra regia, e il nostro pubblico, non ce la faccia ad agguantare ora quel che accadeva in Germania venti anni fa.
Nessun commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.