Zio Vanja e la ferocia del presente: un’intervista a Simona Gonella

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7 Aprile 2023

Dal 13 al 18 aprile, al Teatro Fontana di Milano, torna in scena Zio Vanja. Un’indagine sulla ferocia, una produzione Elsinor e Teatro Metastasio di Prato per la regia di Simona Gonella. Uno spettacolo che affronta il grande classico del maestro russo Anton Čechov rileggendolo in chiave contemporanea, con un focus forte sulle relazioni fra i personaggi, sulla ferocia dei loro rapporti. All’interno di una scena volutamente claustrofobica e priva di appigli naturalistici si muovono gli attori che, senza via d’uscita, interpretano i loro personaggi con la consapevolezza dell’impossibilità fatale di uscire da uno schema sociale bloccato, interamente ripiegato su sè stesso. L’azione prende avvio con il ritorno dell’anziano professore e di sua moglie nella tenuta di campagna in cui vivono Vanja, sua nipote Sonja, Telegin e la balia, e nella quale è di casa il dottore. Da qui parte un sottile gioco al massacro in cui emergono vecchi rancori, tensioni taciute, passioni frustrate e non corrisposte. La costrizione degli spazi amplifica la frattura degli equilibri interpersonali, i desideri individuali che violentemente confliggono gli uni con gli altri, senza possibilità di confronto positivo. La drammaturgia accoglie nel testo alcune delle note di regia che Stanislavskij, più di centoanni fa, scrisse a margine del suo storico allestimento dell’opera, offrendo un contrasto forte fra assenza di riferimenti realistici in scena e minuziosità delle note stesse.

Una rielaborazione che impone allo spettatore una riflessione forte sul presente, sullo sgretolarsi del sistema relazionale all’interno della nostra società sull’allentamento del senso di comunità e reciprocità nei rapporti. Può il teatro, in particolar modo attraverso un classico, aiutarci a capire meglio l’oggi e a fare un tentativo di “evasione” dallo spazio costretto imposto alle nostre vite dal quotidiano?

Lo abbiamo chiesto alla regista e drammaturga Simona Gonella.

Un classico è, secondo Calvino, un’opera nella quale riconosciamo una relazione, un’appartenenza, qualcosa che abbiamo sempre saputo: in un contemporaneo che pensa di avere la risposta per ogni domanda a portata di click, che significato ha la rilettura teatrale di un classico come Zio Vanja? E da cosa nasce questo lavoro di rielaborazione?

L’urgenza di rileggere un classico nasce proprio dalla necessità dal voler affrontare il contemporaneo, ciò che siamo noi nel contemporaneo, attraverso le parole del classico. Quindi, per una persona abituata a “schiacciare un click” e avere tutte le risposte, l’atto di venire a vedere uno spettacolo che rilegge un classico (e che quindi è pensato nella sua messinscena per suscitare delle domande o delle urgenze) è una sfida. Un po’ come essere davanti a un computer, voler “fare click” e invece quel click sentirlo nella tua testa e in qualche modo – auspicabilmente – nel tuo cuore. Rileggere, riscrivere oggi un classico è questo: suscitare dei bisogni e delle urgenze, suscitare delle idee, che attraverso le parole di un classico si possano riflettere nella nella nostra vita. Questo lavoro di rielaborazione nasce per me è esattamente da questo: leggere Zio Vanja significa farmi delle domande e cercare di trovare una risposta attraverso un processo di rielaborazione. Cosa vuol dire? Non vuol dire che in qualche maniera io alteri profondamente il classico, ma cerco anzi di capire all’interno di quel classico che cosa mi tocchi, cosa mi suoni, quale eco quel testo mi fa rimbalzare nella testa e poi lo rielaboro secondo questo punto di vista.

L’opera, come si evince dalla nota stampa, accoglie alcune note di regia che Stanislavskij scrisse a margine dell’allestimento andato in scena oltre cento anni fa. In che modo la pièce contemporanea dialoga oggi col classico?

Cento anni fa Stanislavskij ha messo in scena zio Vanja. La ricchezza di quell’allestimento ci è stata tramandata attraverso le sue note di regia che, così come il testo, sono diventate anch’esse è un classico. Di fatto un classico di come si legge un’opera teatrale, di come si traduce sulla carta (attraverso note minuziosissime nel caso di Stanislavskij) l’intero processo di creazione e poi di restituzione al pubblico dell’opera. Quando noi contemporanei, nello specifico noi, come compagnia che ha messo in scena zio Vanja (e io che l’ho diretta) ci siamo posti la questione della contemporaneità della pièce, abbiamo un po’ fatto lo stesso lavoro. Così come Stanislavskij si è interrogato cent’anni fa sul modo di parlare ai propri contemporanei, attraverso un’opera di regia che ha indagato profondamente il testo di Cechov restituendo alle parole una tridimensionalità eccezionale.

Il nostro lavoro si è posto alla base questa domanda: “Oggi il pubblico che assiste alla pièce come ci si rispecchia? Che cosa vede?”. In questo senso sono state orientate le scelte, che sono scelte testuali, attraverso l’interpolazione delle note di Stanislavskij. Un processo che è servito oggi a creare una distanza fra l’allestimento contemporaneo e quello che potrebbe essere definito come un allestimento più classico, più ritmato da azioni coerenti anche con le didascalie.  Il nostro allestimento è un allestimento molto più feroce, molto più scarno, dove il dialogo fra la nota e ciò che dicono gli attori crea nello spettatore un momento quasi di di smarrimento. Il pubblico si chiede “Ah ma allora dovrebbero essere in un salotto!” e invece no, non lo sono, e questo ovviamente provoca riflessioni nello spettatore.

Abbiamo poi posto grande attenzione al personaggio: ciascuno è indagato a fondo e reso tridimensionale, attraverso il lavoro attoriale. ,Da parte mia, l’elaborazione drammaturgica e di regia ha comportato un’accelerazione su alcuni aspetti del classico, quelli che secondo me risuonano maggiormente oggi, e che sono la ferocia nelle relazioni, l’incapacità di ascoltarsi, la negazione di un dialogo che non sia un dialogo egotico, egocentrico. Tutti questi elementi sono in zio Vanja. Noi li abbiamo presi e li abbiamo  resi la parte immediata, fondamentale che uno spettatore vede, sente, prova.

La ferocia delle relazioni fra i protagonisti è qualcosa di estremamente quotidiano nell’oggi, in un contesto in cui ogni rapporto (reale o virtuale che sia) sembra essere finalizzato a uno scopo. In che modo questo Zio Vanja può interagire con lo spettatore, con il suo senso di relazione, con il suo modo di rapportarsi socialmente?

Anche in Zio Vanja, come in molte delle relazioni che possiamo vedere oggi nel contemporaneo, la ferocia della spesso le regole della relazione. Noi abbiamo cercato di restituire al pubblico il senso di un dialogo reale, vero. Abbiamo cercato di far vedere allo spettatore cosa accade quando un gruppo di persone, animate da frustrazione, momenti egotici, momenti di disperazione, vengono messi in uno stesso luogo da cui è impossibile uscire e vengono invitati a relazionarsi. La relazione viene immediatamente messa in secondo piano rispetto alle istanze personali. Certo non abbiamo dimenticato alcuni momenti di tenerezza, di profondità, come quelli che viviamo anche noi in momenti di fatica e disperazione. Per uscirne i nostri personaggi mettono in atto strategie connotate dalla crudeltà: vederlo in scena crediamo che possa rappresentare un momento di rivelazione per il pubblico, che ci ha restituito spesso questo tipo di sensazione. È chiaro che Vanja ci offre su un piatto d’argento la possibilità di essere molto estremi. Certo Sonja ci offre una possibilità di umano e di tenerezza, ma anche lei è travolta dai suoi bisogni. Lei stessa nei confronti della matrigna Elena non riesce a sottrarsi a questa mancanza di pietà.

L’opera parla anche di una costrizione claustrofobica: persone che si trovano a vivere forzatamente negli stessi ambienti e che, in virtù di questo rapporto di interdipendenza difficile e mediato da antiche relazioni, si incontrano e scontrano in un contesto di banale ferocia quotidiana. Qualcosa di noto – per esperienza – a molti, ma che in modo quasi automatico richiama agli anni di clausura forzata dei rapporti recentemente vissuti da tutti noi. Quanto questo Zio Vanja è stato influenzato dall’esperienza pandemica e dalle sue ripercussioni relazionali e sociali?

Quando ho cominciato a lavorare a Zio Vanja non mi sono sinceramente posta in una dimensione di dialogo con quella che è stata l’esperienza pandemica. Mi sono resa conto poi che, se non altro, la scelta scenografica e visiva di costringere i personaggi ad essere sempre costantemente tutti in scena in un ambiente claustrofobico, senza possibilità di nascondersi, che in qualche maniera i due anni di pandemia hanno contaminato un po’ la mia visione. Devo dire però che io sono sempre stata attratta dalla radicalità di presentare un mondo, familiare soprattutto, da cui non si può uscire. È una mia cifra stilistica, quella di far abitare agli spettatori e agli attori lo stesso luogo. Quindi devo dire che probabilmente a livello conscio ho solo nutrito una mia cifra, dall’altro canto mi sono resa poi conto, con il pubblico in sala, che stavamo riproducendo la claustrofobia che abbiamo vissuto. La parte conscia e inconscia credo sia qualcosa che animi tutti coloro che mettono in atto un processo creativo, che è sempre un dialogo fra una parte razionale e un inconscio che respira sul piano collettivo. Per quanto riguarda me, in particolare quando affronto le questioni familiari, questa è la mia cifra. L’anno scorso, quando ho portato in scena il mio lavoro Dinner, che partiva dall’Orestea e dal film Festen, ho giocato lo stesso tipo di cifra: gli attori entravano in scena e non uscivano mai da un’infinita cena che durava tutta la notte.

Una pièce come questa può aiutare lo spettatore, attraverso un percorso di rispecchiamento e straniamento, in un’elaborazione delle difficoltà insite al relazionarsi sociale di oggi? E in che modo, da un punto di vista autoriale e attoriale, si è modificata negli ultimi anni la relazione con la scena? Lo spettacolo oggi ha ancora una valenza di rito taumaturgico?

Come ho già detto rispecchiamento e straniamento sono due aspetti fondamentali del teatro che offriamo. Una comunità che è chiamata ad assistere a vicende di carattere universale, che non sono cambiate in cento anni. La difficoltà di relazionarsi fra i personaggi rimbalza nella sala, interrogando il pubblico su ciò che sarebbe portato a fare rispetto alla violenza verbale di Vanja, ad esempio, nella vita vera. Dal punto di vista autoriale e attoriale questo lavoro comporta un modo di relazionarsi col classico che spinga a far emergere temi umani senza soffermarsi troppo su dettagli naturalisticamente plausibili. All’attore è richiesto lo stesso tipo di procedura, misurandosi con la costante presenza degli altri nello spazio vuoto. Anche il fatto che tutti i personaggi assistano a tutti gli eventi, quindi siano sempre sotto pressione, ha creato una difficoltà superiore nel lavoro. Questo anche nel lavoro di scelta e rielaborazione delle note di scena, che implicano per l’attore una parte attiva in questo senso. Tutti hanno lavorato in modo molto autoriale sul proprio personaggio, il modo in cui esserlo e in che maniera. Questo ha a che fare con la relazione fra autore, attore, regista e la scena oggi. Tutti collaborano profondamente all’esito finale e io, come regista, ho abbandonato il pensiero del registra demiurgo e da tempo pratico un tipo di creazione che ha molto a che fare con la creazione collettiva. Attuo un sistema di avvicinamento alla scena che li coinvolge profondamente in modo decisionale. Sicuramente ormai nel lavoro coi classici, nella scena italiana, possiamo riconoscere una grande attenzione al “parlare al contemporaneo”.

Da cosa dobbiamo “guarire”, a tuo parere, in termini di relazioni?

Non so se lo spettacolo oggi possa ancora avere una valenza pienamente taumaturgica. Quello che so è che lo spettatore nel momento in cui viene a teatro compie un rito, di questo sono sicura. Che questo rito poi arrivi alla cura, alla catarsi, al sollevarsi dal qui e ora dello spettatore e andare verso qualcosa di più profondo non lo so. Viviamo in una società molto veloce, che ha difficoltà a relazionarsi al tempo lento del teatro e che ha difficoltà ad abbandonarsi, perché molto schermata. Nel mio caso direi che il rito si compie: io non mi limito a mettere in scena un testo, ma invito lo spettatore a cooperare in modo immaginifico al processo. Anche se è faticoso, perché le relazioni sono di per sé faticose, perché l’altro da sé è faticoso.

Se oggi avessimo un po’ più di coraggio nello stare nelle relazioni e se avessimo voglia di fare un po’ più fatica, potremmo forse guarire. I personaggi di Vanja hanno questo problema: non si ascoltano. La loro fatica è tutta concentrata su di noi. Forse questa fatica ci sta consumando, mettendo i nostri desideri sempre al centro, senza aprirci all’altro, senza condividerli. Forse dovremmo mettere in condivisione i nostri desideri e affrontarli in una maniera più dedicata all’altro.

Zio Vanja
Un’indagine sulla ferocia
Di
Anton Cechov
Drammaturgia e regia Simona Gonella
Con (in ordine cechoviano)
Stefano Braschi

Il professore
Stefanie Bruckner

Elena
Stefania Medri

Sonja
Anna Coppola

Maman, Balia, Note
Woody Neri

Vanja
Marco Cacciola

Il dottore
Donato Paternoster

Telegin
Spazio scenico
Federico Biancalani
Disegno luci
Rossano Siragusano
Costumi Anna
Maria Gallo
Ambienti sonori
Donato Paternoster
Produzione
Elsinor Centro di Produzione Teatrale, Tea
tro Metastasio di Prato
Con il contributo di NEXT

Laboratorio delle Idee
Spettacolo inserito in abbonamento Invito a Teatro

Ph. Anna Coppola – Luca Del Pia

TAG: Elsinor, Simona Gonella, Teatro Fontana, Zio Vanja
CAT: Teatro

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