Virginia Raggi vince il primo braccio di ferro: la Lombardi lascia il direttorio
Sul suo profilo Facebook parla di “polemiche che interessano solo ai giornalisti”. Eppure lo strappo c’è stato, al di là delle dichiarazioni di facciata di […]
Pareva tutto semplice, fino a qualche mese fa, nel capoluogo piemontese. Torino sembrava essere tornata alla fausta epoca sabauda, quando la gente stava bene e le cose funzionavano. Niente grilli (!) per la testa, ma una sana ed oculata amministrazione. Un ventennio in mano al centro-sinistra parevano aver ridato slancio e spessore ad una città che, prima, era ricordata ormai solamente in associazione con la Fiat e, ovviamente, con la Juventus.
Poi, quasi all’improvviso, un piccolo tarlo comincia ad introdursi nell’oliato meccanismo cittadino. Fassino forse ha fatto il suo tempo, forse c’è bisogno di qualche forza nuova, magari più giovane e con uno sprint maggiore. Nemmeno fossimo a Napoli… La tradizionale compostezza torinese riceve una piccola scossa che, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, comincia ad essere sempre più incrinata.
Il Movimento 5 stelle si presenta con una candidata abile, di buona pratica politica e capace di gestire una difficile comunicazione, in una città così tradizionalista. Piccole flessioni registrate dai sondaggi, di cui però pochi si curano. Sarà un fuoco di paglia, si dice, perché i torinesi dovrebbero abbandonare la sicurezza di una città ben rodata, per lasciar spazio ad una novità incontrollabile e così immatura?
Chiamparino, alle ultime elezioni regionali, aveva avuto un consenso quasi plebiscitario nella città di cui è stato sindaco per tanto tempo: più del 55% dei voti, distaccando i suoi diretti avversari di oltre trenta punti. Già, ma chi era in seconda posizione a Torino? Nemmeno alcuni bravi giornalisti se ne ricordavano, avevano in mente il dato regionale, non quello cittadino. Be’ al secondo posto si era classificato Bono, il candidato appunto dei 5 stelle, che aveva battuto anche lui sonoramente il rappresentante del centro-destra, di 7-8 punti.
Un piccolo campanello d’allarme poteva suonare. Anche perché i soliti sondaggi descrivevano l’elettorato del Pd di Fassino come composto soprattutto dalla parte più anziana della popolazione. Mentre i più giovani, fino ai 40-45 anni, sceglievano la nuova candidata, Chiara Appendino. Ma nessuno, letteralmente, pareva preoccuparsi. Quando in una intervista dello scorso gennaio, avevo io stesso sottolineato il fatto che forse, se Fassino non avesse vinto al primo turno giocando senza l’ala sinistra, si potesse prefigurare una situazione simile a quella di Parma (tutti contro il Pd al ballottaggio), venni preso come una sorta di portasfortuna.
Ma alla fine, questo è ciò che è capitato: al secondo turno, secondo la puntuale analisi dei flussi elettorali, quasi tutti gli esclusi al primo turno sono tornati a votare contro Fassino e contro il Pd, determinando il grande ribaltone. Le colpe del Partito Democratico torinese? Essersi sostanzialmente dimenticati che esiste una cosa chiamata campagna elettorale, fatta di presenza sul territorio, dai mercati rionali al contatto con i cittadini, dal dialogo con i giovani alla rivendicazione della cose fatte dalla giunta uscente, curandosi meno dei media e più degli elettori. Ciò che, in parte, ha fatto Sala a Milano, con metodo e perseveranza.
I meriti dei 5 stelle e di Appendino? Aver puntato sulla voglia di cambiamento, di svecchiamento, contro la sclerosi che a volte ha paralizzato le interazioni della giunta uscente con i cittadini, privilegiando quelle con i gruppi di potere. Qualcosa che loro oggi possono fare, con quale esito è ovviamente prematuro ipotizzare. Ma, certo, con la percezione da parte dei torinesi di un deciso cambiamento di rotta.
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