Cartoline da Tunisi. Cronache di una tranquilla giornata elettorale

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31 Ottobre 2014

Sono in Tunisia da circa due anni, da quando mi sono trasferita per la mia ricerca di dottorato sul teatro della transizione democratica. Oggi, sono ancora qui, insegno all’Università di Sfax ad una classe di quaranta studentesse delle province del Sud del Paese, ho fondato una compagnia teatrale italo tunisina e un po’ mi sento di aver perso lo sguardo dell’osservatore esterno: vivo una strana condizione come di una cittadina a metà.

Per questo, le prime elezioni democratiche del Paese le ho attese con impazienza e preoccupazione, cercando di capire “dal di dentro” quale fossero i segnali, il clima emotivo dei tunisini ad oggi, ottobre 2014, parlando con gli amici, i coinquilini, i miei studenti, ma anche gironzolando per la città con fare curioso, come molti altri “occidentali” come me.

Nella settimana precedente le elezioni, infatti, Tunisi si riempie in modo palpabile di “guerra”, di stranieri, arrivati da ogni angolo d’Europa e non solo, armati di badge dell’ISIE (Instance Supérieure Indépendant pour les Elections ndr), macchine fotografiche e telecamere: nei pochi bar della città le serate si fanno euforiche ed internazionali, con una strana sensazione di città cosmopolita che raramente accompagna le notti tunisine.

La stessa straniante sensazione si ha passeggiando di giorno per l’Avenue Burghiba: i molti cafè che punteggiano il corso principale della capitale, teatro nel 2011 delle manifestazioni contro il regime di Ben Alì,  sono trasformati in uffici a cielo aperto, dove gruppi di giornalisti sono riuniti intorno ai computer e alla rassegna stampa quotidiana.

Ci sono osservatori, fotografi, video maker, ma anche tutta la grande comunità di stranieri che vivono in Tunisia da un po’ di tempo, me compresa, nei sopralluoghi di quartieri periferici, nelle passeggiate intorno ai seggi elettorali, nei comizi di chiusura delle campagne dei maggiori partiti tunisini. Una strana euforia mista a agitazione circola in città: aspettiamo l’evento, ci sarà tensione? Saranno delle vere elezioni democratiche?

Mi ricorda il 2012, quando sono arrivata per la prima volta a Tunisi: eravamo in molti, gli occidentali, trasferiti in città con i più vari pretesti di ricerca. Gli incontri tra stranieri avevano sempre tra le prime domande: cosa fai a Tunisi? “Mi occupo di donne e Rivoluzione” “Io faccio una ricerca dottorale su economia e Rivoluzione” “Sto chiudendo la mia tesi di master su diritto e Rivoluzione in Tunisia” e così discorrendo.

Eravamo in molti alla ricerca delle tracce delle rivolta, già allora ricordo dai contorni sfumati, nelle cartoline in bianco e nero dell’Avenue Burghiba: ricercatori, giornalisti, attivisti arrivati pieni d’entusiasmo come a cercare nella Rivoluzione del 2011 le tracce di un’azione per il cambiamento possibile, spontanea, dal basso, che faticavamo a trovare nelle sonnolente e sfiduciate società occidentali di provenienza.

E ancora oggi siamo qui, a cercare di decifrare l’enigma tunisino per capire se davvero quelle rivolte hanno avuto seguito, se un processo di cambiamento democratico dal basso è possibile oppure no, se ( e come) la Tunisia potrà definirsi il solo Paese della regione ad aver portato a termine il percorso transizionale.

Nella stessa settimana, invece, il grado di attenzione ( e di tensione) dei tunisini per le future elezioni è davvero basso: quando chiedo in classe ai miei studenti chi di loro ha deciso di andare a votare, alzano timidamente la mano in tre sui quaranta allievi dei miei corsi. Non si sentono rappresentati, dicono, dai partiti presenti alle legislative. I pochi futuri neovotanti sono pronti a dare la propria preferenza per il “meno peggio”, o ancora, a fare un “voto utile”.

Dev’essere un tratto distintivo della democrazia come la conosciamo, penso, quest’immediato scollamento tra rappresentanti e rappresentati, che fa scolorire in tempo breve la necessità di una partecipazione attiva dei cittadini al cambiamento.

Il giorno delle votazioni decido di girare per alcuni quartieri della città insieme a quattro amici italiani, a visionare i seggi e a capire un po’ il clima generale che si respira in città. La prima tappa della gita elettorale è a Jbal l’Ahmer, la montagna rossa, il quartiere caldo da cui sono partiti in molti harraga (viaggiatori illegali ndr) negli ultimi anni e che ha visto comparire insieme alla libera espressione ereditata dalla Rivoluzione molte barbe e qualche scritta sui muri per la sharia come legge di Stato.

Arriviamo con volti seri e preoccupati, ma siamo i soli: nel quartiere c’è aria di festa, di una tranquilla domenica elettorale. In molti si presentano nella scuola elementare adibita a seggio: davanti all’ingresso, troviamo altri amici italiani con macchine fotografiche al collo e taccuini pieni di appunti. Il disappunto per l’effetto “gita nel quartiere” viene subito dissipato dalle variegate presenze che animano il seggio: le anziane signore con il volto tatuato alla berbere, gli adolescenti per la prima volta al voto, qualche rappresentante di lista in grigi completi demodè, e i vecchi saggi del quartiere che ci guardano con aria curiosa; un militare che parla italiano ci intrattiene nel cortile dell’istituto, ha fatto la scuola di aeronautica a Pozzuoli. Unica nota di colore una macchina di ragazzini in cerca d’attenzione che virilmente sgomma a più riprese nella piazza centrale del quartiere.

Bene, tutto tranquillo. Niente aria di aggressioni salafite o di tensioni da broglio elettorale. Andiamo allora in centro città, al seggio dietro l’Avenue, in rue de Russie. Anche qui, gli unici elementi di disturbo apparente siamo noi: la scuola è animata e piena di gente, qualche militare all’uscita segnala la presenza di un controllo di una eventuale conflittualità, ma con discreta sobrietà. Una ragazza sorridente di circa vent’anni esce dal seggio con il tipico dito tinto di blu di chi adempie i propri doveri elettorali alzato in aria e la bandiera tunisina sulle spalle.

Decido quindi che la mia gita elettorale può terminare in un cafè dell’Avenue, dove pure l’atmosfera è rilassata e festosa, al limite dell’indifferenza. La sera guardo lo spoglio in televisione come da consueta tradizione elettorale.

Il giorno seguente i primi risultati, non ancora definitivi: Nidaa Tounés prende la maggioranza dei voti con il 37%, seguita con discreta distanza da Ennahda con il 29% e dal neonato partito UPL del Berlusconi tunisino Slim Riahi all’8% e da un Front Populaire al 5%. Mentre l’Europa gioisce al grido della vittoria laica, a Tunisi qualcuno festeggia la vittoria del meno peggio, che ha tolto spazio e potere a Ennhada, ma che sostanzialmente vede andare in Parlamento vecchi personaggi grigi dell’RCD, il partito di Ben Alì, rischiando di riportare il Paese a retrocedere, politicamente e, soprattutto, economicamente. Se infatti la Rivoluzione ha reclamato a gran voce karama, dignità e diritti sociali, quale futuro potrebbe costruire un partito di governo che ha un progetto economico essenzialmente neoliberale?

Solo qualche giorno dopo, riuniti davanti a una birra, noti avvocati della sinistra radicale, amici stretti, gioiscono per la prima vittoria del Front Populaire al 5 %, che tanto mi ricorda le esultanze di certa sinistra italiana al superamento della soglia di sbarramento del partito di preferenza. Alla seconda birra, qualcuno lascia il tavolo per rientrare a casa, telefonando dopo una decina di minuti: abbiamo ricevuto delle minacce, perché eravamo al tavolo con “personaggi scomodi”. E, seduto di fianco a me, un amico commenta: “Mi sembra di respirare l’aria del tempo di Ben Alì, anche se ancora non è successo niente.”

La prima buona notizia è quindi che le elezioni si sono fatte, e, a quanto pare, democraticamente e senza brogli; la seconda è che non ci sono state tensioni né attentati terroristici. La cattiva notizia, invece, è che la “strategia della tensione” terroristica comincia a dare i suoi frutti: il partito di maggioranza eletto ci ricorda che i tunisini hanno scelto la sicurezza e la disciplina, come direbbe De André. Ed anche che quella necessità di cambiamento e di libertà che nel 2011 ha spinto molti di loro e molti di noi a scendere per le strade della capitale sembrano un ricordo molto lontano.

 

 

 

 

 

 

 

 

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