Contro gli Usa e contro l’Isis, i sauditi spingono giù il prezzo del petrolio

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5 Novembre 2014

La caduta del prezzo del petrolio sotto 80 dollari al barile – ossia i livelli minimi da tre anni per il greggio WTI e da quattro anni per il Brent – è ormai giunta a punto critico. Il rallentamento della domanda globale, si dice. Certo. Ma anche l’effetto della strategia politica dei sauditi in chiave anti americana. Strategia che è anche volta a ridimensionare Iran, Iraq e Russia, oltre che le vendite sul mercato nero dell’Isis.

Aspetto non trascurabile di questa situazione sono gli evidenti i vantaggi che ne discendo per la crescita globale. Secondo stime del Fondo monetario internazionale, infatti, la crescita globale riceve un contributo positivo dello 0,20% per ogni 10% di riduzione del costo del barile. Questo potrebbe portare a un incremento delle esportazioni manifatturiere soprattutto europee, se non fosse che si stenta a vedere una ripresa netta sulla domanda. I risvolti geopolitici dell’attuale situazione sono invece più evidenti e avranno effetti duraturi sugli equilibri mondiali. Lo scenario è diverso per un produttore come gli Usa grazie allo shale oil si sta affrancando dalla dipendenza saudita, oppure per una Russia la cui situazione è complicata dalle implicazioni del conflitto ucraino. Sul bilancio di un tale produttore passare da un prezzo di 117 $ nel 2014  a 100$ nel 2015 fa una bella differenza. Lo stesso dicasi per nazioni come Nigeria, Libia e Venezuela, la cui posizione fiscale dipende in massima parte dalle entrate dal petrolio. La cattiva abitudine soprattutto per questi tre Paesi di gonfiare i bilanci con prezzi di riferimento del petrolio a ridosso dei 100 dollari, e comnque e più alti del mercato ( o delle relative medie pluriennali) invece di tenersi un cuscinetto di salvaguardia dalle oscillazioni di prezzo, li espone ora a disallineamenti sul deficit e non solo.

Nel caso del Venezuela questa situazione si innesta su un impianto socio economico fuori controllo. Un esempio di impatto positivo è invece rappresentato dal Messico ove il costo di produzione (deepwater) è di 45 dollari al barile inferiore peraltro al costo nel Mare del Nord. Il prezzo del Brent nel bilancio 2015 resterà fissato a 79 dollari in quanto prefissato nel 2013 quando il Brent quotava circa a 85 dollari usa. Il riferimento al Brent dipende dal fatto che la qualità messicana è un “blend” simile al Brent con un’approssimazione di 7 dollari  sotto al Brent. Quindi i 79 dollari (che corrisponderebbero ad un ipotetico 86 dollari di Brent) diventano un punto di pareggio per il Paese, che corrisponde ad un deficit di bilancio stabile al 4%, mentre ogni dollaro di prezzo del greggio sotto questo limite gli costa 300 milioni di dollari Usa. Con una crescita del Pil attesa al 4,2% nel 2015 ed una resistenza strutturale,  il Messico è forse l’unico produttore energetico,insieme alla Norvegia, a non subire pesanti effetti dal calo petrolio. Tanto da aver smontato le coperture finanziarie ormai decennali. Ma il vero pivot del gioco del barile è l’Arabia Saudita. Con i loro giacimenti copiosi e prezzi di produzione bassissimi, i sauditi hanno già stipulato contratti con supersconti verso i Paesi asiatici, perseguono la strategia ribassista per rendere approvvigionamenti agli stessi dagli Usa e mettere sotto pressione Iran e Iraq. Cina e India vengono così gradualmente sostituiti agli Usa come partner ideali e con l’ambizione di legare sempre di più il Medio Oriente all’Asia Centrale. Ma la mossa saudita è anche un chiaro segnale politico verso le ambiguità qatarine e le ambizioni russe nell’area, e va letto nel quadro di un coordinamento fra le monarchie arabe contro eventuali contaminazioni islamiste estremistiche.

I bombardamenti americani e della “presunta” alleanza anti Isis, che comprende sauditi, Emirati Arabi ed il discusso Qatar (che da un lato sigla con gli Usa quella cheè la più grande commessa militare americana del 2014 e dall’altro finanzia Hamas e altri gruppi terroristici), hanno ridotto l’accesso al petrolio a circa 20 mila barili al giorno rispetto al picco dei 70 mila barili precedenti, secondo fonti IEA. In questo modo si è attenuata anche la possibilità di accesso alle raffinerie siriane nonché l’approvvigionamento ai gruppi sunniti islamisti più radicali che combattono sul territorio siriano. La fame di petrolio li ha spinti a reiterare attacchi contro Baiji, la più importante raffineria irachena sin dallo scorso giugno senza però mai riuscire a prenderne il controllo. L’oro nero viene venduto sottocosto e frutta ora circa 1 milione di dollari Usa al giorno, passa attraverso i confini siriani e viene smistato da corrieri e uomini d’affari turchi dalle parti di Besaslanad un prezzo di circa 35 dollari. Anche laddove son presenti gli uomini dell’FSA, il Free Syrian Army , una coalizione di combattenti vicini agli Usa, il passaggio è garantito e risolto via “provvigione” pagata dal corriere. Attualmente l’Isis controlla il 60% del petrolio prodotto in Siria ed altri giacimenti minori in Iraq ed oltre via Turchia distribuisce approvvigionamenti sul territorio occupati che ormai è grande quanto il Belgio e copre le necessità di oltre 8 milioni di cittadini sparsi tra Iraq e Siria.

Il punto di caduta di questo è che alla prossima riunione dell’Opec, l’organizzazione dei paesi produttori di petrolio, in calendario per il 27 novembre, i sauditi non accetteranno richieste di Venezuela, Iran e Nigeria di tagliare la produzione per far risalire i prezzi, che consentirebbe a questi ultimi di restare competitivi. Al contrario, i sauditi continueranno a difendere le loro posizioni di mercato negli Usa, mentre sui mercati internazionali oro e petrolio non sono più un bene rifugio. Anche per le società energetiche  si rende necessario alleggerire certe posizioni. Si calcola infatti che le energy companies Usa detengono il 15,4% dell’indice Barclays US Corporate High Yield Bond era solo il 5% nel 2005.

 

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