ISRAELE: UNA PACE DIFFICILE

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23 Dicembre 2014

Gerusalemme colpisce al primo sguardo, è una città che cattura e affascina, talvolta spaventa.

Seduce da secoli pellegrini e viaggiatori, mercanti e mendicanti, studenti e archeologi, guerrieri e schiavi, condottieri, conquistati dai luoghi sacri di cui è costellata, dalla storia millenaria, dalle tradizioni di cui è pervasa, che avvolgono ancora oggi le sue mura. Ma ciò che più colpisce, della città tre volte santa, è che non ha sfumature, contaminazioni, mescolanze: le differenze sono nette, precise, affilate.

Arriviamo in Israele, a Tel Aviv verso sera, lo scorso mese di novembre, nei giorni degli attentati, quando il mondo sta a guardare e si chiede se queste giornate di morte siano il preludio a una nuova Intifada. Il controllo passaporti, contro ogni aspettativa, è  facile e veloce: poche domande, sul perché della visita in Israele, sull’albergo in cui risiediamo, sui giorni in cui ci fermeremo nel Paese.  Poi via, verso Gerusalemme, su un taxy comunitario:  il primo impatto con la città è duro, violento. Il taxy si ferma più e più volte in diversi quartieri periferici della città: le finestre sono chiuse da grate, alcune case portano segni di armi da fuoco sui muri. Passiamo nel quartiere ultra ortodosso di Mea She’arim, qui gli uomini, come tanti corvi neri, camminano veloci, con i payot (ciocche lunghe e arrotolate sulle tempie), che scendono a incorniciarne il viso. Un tuffo nel passato, in un mondo lontano anni luce da quello in cui viviamo.

Arrivati in centro la scena cambia, la Porta di Jaffa ci introduce nel Quartiere Cristiano, dentro la città vecchia,  un insieme di vicoli e strade pulite, bancarelle di souvenir cristiani, ostelli e strutture di accoglienza per pellegrini. Fuori dalle mura edifici moderni, bar e ristoranti di lusso, una linea di metropolitana leggera in cui ad ogni fermata il wireless è “free”.

I giorni a Gersualemme passano veloci, immersi in un clima spirituale creato da un labirinto di fedi che regala emozioni forti. Eppure i contrasti li senti e li provi a ogni cambio di via e di strada. Gerusalemme Est, abitata prevalentemente da palestinesi, è caotica, disordinata e sporca. Si affaccia sulla Porta di Damasco, la via di accesso al quartiere musulmano della città vecchia. Un tuffo nel mondo palestinese, con donne che arrivano dai villaggi per vendere erbe e prodotti dell’orto, famiglie che fanno il pic nic sedute sugli scalini, carretti di mercanzie che entrano e escono dalla città vecchia. E poi il quartiere ebraico, residenziale e moderno, ricostruito nel 1967, dopo essere stato raso al suolo nel 1948. Infine, racchiuso dentro alte mura e imponenti porte di legno che ogni sera vengono chiuse per essere riaperte solo la mattina dopo, il Quartiere Armeno, una vera e propria città nella città, in cui circa 1500 persone vivono con le proprie scuole, i propri negozi, la biblioteca e la zona residenziale celata dietro alti muri.

A guardia di questo microcosmo sempre e ovunque soldati israeliani, uomini e donne, giovani e giovanissimi, armati di mitra. Con loro impari a convivere, la prima volta che li incroci li osservi con timore, poi capisci che questa è la norma. Appoggiano il mitra accanto alla sedia la mattina, mentre fanno colazione al tavolino del tuo stesso bar.

I controlli sono ovunque, per accedere al Muro del Pianto si passa sotto il metal detector, in fila, uno alla volta, passano prima le borse e gli zaini, poi le persone. Poi si scende giù, fino al Muro, una sinagoga all’aperto in cui uomini e donne, rigorosamente divisi, si recano per pregare dal venerdì dopo il tramonto, quando ha inizio lo schabbat, fino al sabato prima del tramonto.  Forse lo si immagina più grande il Muro, più ampio lo spazio della preghiera, ma la forza di ciò che si vede e si sente, di ciò che si percepisce, passa con violenza.  E il venerdì sera, quando poco a poco il Muro si popola di uomini, ragazzi e bambini e risuonano canti, balli, preghiere, quasi grida che si incrociano con i versetti della Torah, che i chiassidim, vestiti di nero, recitano oscillando avanti e indietro sui talloni e muovendo la testa a scatti, pare che il tempo qui si sia fermato. I soldati arrivano in gruppo, appoggiano le mani sulle spalle del vicino e iniziano a ballare e a cantare, e poi via via ne arrivano altri e ancora altri, e il cerchio si allarga, il canto diviene un urlo, sempre più forte.

Per salire alla Spianata delle Moschee, posta proprio sopra il Muro, l’iter è lo stesso, metal detector, ispezione della borsa, ti domandano da che Paese arrivi e ti lasciano passare.

La spianata è un luogo dal fascino violento: uomini seduti in cerchio parlano, mangiano, pregano. A un certo punto si alza un urlo, una voce, cui si aggiungono a seguire due, tre, venti, cinquanta voci:  “Allah akbar”  ovvero “Dio è il più grande”. In un punto sul limitare della spianata sorge il terzo luogo più sacro dell’Islam, la moschea Al -Aqsa; ma il gioiello più prezioso del Monte è sicuramente la dorata Cupola della Roccia, simbolo imperituro di Gerusalemme, gioiello abbagliante e controverso, sorge infatti su una lastra di pietra considerata sacra sia dai musulmani che dagli ebrei. Dalla Spianata si gode un affaccio maestoso sul Monte degli Ulivi, il più grande cimitero ebraico che ci sia al mondo.

Il venerdì siamo obbligati, pur restando ancora a Gerusalemme, ad affittare una macchina che ci servirà poi il sabato, giorno in cui tutte le attività cittadine restano chiuse e la città si immobilizza, per lasciare la città. Decidiamo quindi salire al Monte degli Ulivi. Il Monte è lì, davanti a noi, un chilometro, due al massimo. Ma riuscire a districarsi per le strade  di Gerusalemme è difficile. Molte sono chiuse, i soldati ci fanno tornare indietro. Nella nostra ricerca di una via finiamo in un quartiere chiaramente palestinese. Anche di qui non si passa,   alcune strade sono chiuse da blocchi di cemento e i bambini giocano appoggiati ai blocchi. I soldati armati presidiano. Scopriremo poi di essere finiti a Abu Tor, il quartiere in cui è stato ucciso il presunto attentatore di  Yehuda Glick, il rabbino di origini americane e attivista di estrema destra ferito mentre stava uscendo da una conferenza in cui chiedeva di permettere anche agli ebrei di pregare sulla Spianata.

Sul Monte degli Ulivi giornalisti e operatori televisivi puntano i loro obiettivi sulla Spianata, è venerdì, il giorno di preghiera dei musulmani e per la prima volta da diverse settimane la Spianata è nuovamente aperta per la preghiera agli uomini sotto i cinquant’anni. Israele aveva completamente chiuso l’accesso alla Spianata dopo l’attentato a Glick e l’uccisione del sospetto aggressore palestinese. La chiusura totale aveva scatenato proteste in tutto il mondo arabo.

Il sabato lasciamo Gerusalemme e ancor prima di uscire dalla città scorgiamo simbolo supremo della divisione, il Muro,  che corre imponente in Palestina, invalicabile barriera di cemento e ferro che si stende a perdita d’occhio lungo 450 chilometri sugli 800 pianificati. Un mostro che non solo rende impossibile il passaggio dai Territori Occupati palestinesi a quelli israeliani, ma che divide soprattutto palestinesi da altri palestinesi, intere famiglie.

In Cisgiordania, una terra arida e secca, una terra di pietre e deserto, incrociamo alcuni dei 121 insediamenti blindati. Stanno sulla cima di una collina, chiusi da recinti e con torrette a guardia. Hanno ospedali, scuole, negozi, ristoranti. A vederli da lontano paiono villaggi vacanze, luoghi artificiali e finti in cui le persone passano qualche giorno. E invece qui la gente abita sempre, chiusa dentro cancelli controllati da guardie armate e presidiati da torrette che si affacciano sul territorio circostante. E sotto la collina, baracche costruite con lamiere e cartoni, in mezzo a capre e asini, le abitazioni dei beduini nomadi palestinesi. Due mondi che vivono uno accanto all’altro, così vicini eppure così lontanti.

TAG: conflitti, Gerusalemme, il Muro, Palestina
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