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Geopolitica

La banalità del male e le parole che mancano

di Tiziana Plebani
5 Giugno 2022

Libreria della stazione Termini di Roma. Quella a due piani. Mentre guardo gli scaffali pieni di libri, mi passa vicino una delle esercenti che chiama un’altra al piano di sotto per rispondere a una richiesta di un acquirente: “Portami su un po’ di banalità del male”.
Eravamo a metà marzo, a un mese dell’inizio della guerra in Ucraina. Quella frase – “Portami su un po’ di banalità del male” – mi si è appiccicata addosso e da allora non sono riuscita a levarmela di torno.
Mi ha fatto compagnia in tutti questi giorni in cui non riesco ad allontanare da me il pensiero della guerra e la sua pena infinita. E continua a sollecitarmi anche se non trovo le parole che mi corrispondano appieno, perché quelle che pronunciavo insieme alle altre Donne in Nero a partire dal 1991 nelle nostre uscite pubbliche, nei viaggi nella Ex Jugoslavia e poi ahimè nei conflitti che si sono succeduti, non mi bastano più, non sono sufficienti di fronte alla “banalità del male” che è tornata alla sua massima potenza.
Perché, pure se lo scenario è fortunatamente diverso da quello descritto da Hannah Arendt, anche qui però il peso delle singole soggettività viene totalmente oscurato come fosse una guerra combattuta da due persone, Putin e Zelensky.
Ma, come sappiamo, tutto ciò ha bisogno di una catena di comando, di persone ubbidienti in nome di parole importanti o che sono tornate terribilmente importanti – patria, nazione, confini, sovranità – o comunque ubbidienti senza margini di dubbi a un’autorità che decide il bene e il male, la vita e la morte di altri. Eppure anni addietro noi ci siamo nutriti di culture della disobbedienza, della diserzione, della fuga, della critica all’uomo solo al comando (sempre un maschio), per non parlare della spinta al disarmo e alla non violenza che avevano un posto nel dibattito contemporaneo. Culture in cui si sollecitava a riflettere che non c’è mai solo una scelta possibile e che spesso ce n’è un’altra che non prendiamo in considerazione. Culture che oggi paiono affievolite, come fossero relitti di un altro mondo.
Allora forse siamo entrati o rientrati in un’epoca di obbedienza che pare assai praticata in alcune parti del mondo e che si associa, ed è il caso di sottolinearlo, a una disciplina del maschile e di una certa idea di virilità che intende riportare i due sessi a un equilibrio precedente, ristabilendo chi comanda e chi non ha parole.
Ma ci sono altri preoccupanti ritorni che parlano della banalità del male e di una scomparsa di una soggettività vigilante e critica.
Lo strazio del corpo del nemico. Sono una storica e so che è stata continua nella storia la ricerca di un limite da porre alla violenza della guerra e dei combattimenti, e la necessità di preservare la dignità e l’intangibilità dei corpi dei vinti e uccisi. Il riferimento “madre” è lo sdegno che suscita il furore di Achille che non contento di aver ucciso Ettore fa scempio della sua persona e che Omero narra proprio perché ciò contravviene alle sacre leggi. Ed è lo scenario dello scontro di Antigone contro il tiranno, quel reclamare la sepoltura anche di un traditore, di un avversario, di un nemico.
Oggi rivediamo corpi ammassati, fosse comuni, morti espulsi da qualsivoglia forma di pietas, neppure numeri di cui tener conto. Banalità del male che si accanisce sui corpi, che cancella ogni forma di umanità. Eppure c’è una mente dietro al braccio che spara, tanto più agli inermi, a quell’uomo anziano che procede in bicicletta e che non rappresenta alcuna minaccia, alle persone rifugiatesi in un supermercato, in una chiesa.
Morti con le braccia legate, colpiti senza che abbiano potuto nemmeno comprendere il momento e avere il tempo di un ultimo ricordo, di una preghiera, di un pensiero di commiato dal mondo. L’ha ricordato con la sua consueta lucidità David Bidussa nominando un libro sempre attuale di Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso (https://www.glistatigenerali.com/storia-cultura/il-ritorno-del-corpo-del-nemico-ucciso/)
Ma c’è un altro terribile ritorno: la tortura. È vero, non è un ritorno recente, cerchiamo di dimenticarcene ma da tempo è rientrata dalla finestra quando speravamo di averla espulsa dalla porta d’entrata della casa dell’umanità. Ora stati e polizia ne fanno un uso quasi allo scoperto. Ma anche in questo caso c’è da chiedersi dov’è finita la grande campagna d’anni fa “Nessuno tocchi Caino” che richiedeva che nessuno tocchi prigioniero, internato, recluso, che nessuno umili, degradi un corpo, nemmeno quello del reietto. Tortura che fintamente sembra utilizzata per estorcere informazioni ma è invece fine a sé stessa, volta a privare la persona della sua dignità e del radicamento alla sua identità di vivente fragile e pulsante.
Perché queste culture non siamo riusciti a metabolizzarle, a farle entrare nel nostro DNA, in un patrimonio comune?
Pare che gli uomini vogliano dimenticare il sacro che abita ogni corpo, il mistero della nascita che dona la vita attraverso un corpo di donna e il debito contratto all’origine che prescrive la cura della vita e non la sua offesa.
L’ultimo ritorno ma questo davvero non è un ritorno bensì una costante è lo stupro di guerra, che si aggiunge a quello quotidiano, in un tempo che non è di guerra ma che in molte parti del mondo sembra consistere in una resa dei conti con la libertà che le donne si sono conquistate, che fa molte vittime e che assomiglia tanto alla guerra.
E la banalità del male avanza con i soldati in divisa che scambiano l’arma che hanno tra le mani con il membro che hanno tra le gambe, e viene da chiedere se non è tutto un ordine simbolico che si vuol ricostruire, che toglie la parola alle donne, ai civili, agli inermi, che seppellisce la democrazia, anche imperfetta (perché la democrazia nasce imperfetta), che impone l’autoritarismo al posto di un dialogo pur difficile, che reintroduce la forza come logica che sovrasta ogni altra dimensione della vita, e che chiede alle donne di farsi da parte.
Penso che di fronte alla banalità del male bisogna aggiungere parole e spinte ideali a quel “Fuori la guerra dalla Storia” che pronunciò Bertha von Suttner all’inizio del Novecento, che conteneva già la richiesta del disarmo universale: dobbiamo rimettere al centro dell’agenda politica l’antiautoritarismo, da cui prese le mosse anche il femminismo degli anni ’70, la difesa della dignità di ogni vivente, l’ascolto della popolazione civile, il faticoso lavoro della democrazia e in primis la libertà delle donne.

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