L. Scacchi (FLC CGIL): “Il PNRR non risolve i problemi degli studenti”

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18 Maggio 2023

Intervista a Luca Scacchi, responsabile docenza universitaria FLC CGIL.

Le tende montate davanti alle facoltà delle principali città italiane hanno acceso i riflettori su uno dei tanti problemi dell’università italiana: la carenza di alloggi per studenti a prezzi accessibili. Secondo un rapporto di Cassa Depositi e Prestiti del 2022 tra il 2015 e il 2019 il numero degli studenti universitari è rimasto stabile, ma i fuori sede sono cresciuti da 734.000 a oltre 830.000, mentre i posti letto a loro disposizione sono solo 62.000, l’8%, una quota decisamente ridotta, di cui il 90% è coperto da strutture pubbliche o convenzionate. Per CDP per attestarsi a “livelli europei”, coprendo almeno il 20% del fabbisogno, servono 100.000 posti letto. Un altro rapporto, questa volta di Scenari Immobiliari e Camplus, porta la stima a 130.000 e segnala il crescente interesse degli investitori in questo settore, che nel 2022 in Europa ha attirato capitali per 12,4 miliardi di euro e in Italia per 200 milioni e che, come spiega un dossier della CGIL Lombardia del 2021 “prevede solitamente la presenza di grandi fondi immobiliari o di fondazioni (come Hines, Fondazione CEUR) che vanno ad istituire delle società controllate operanti esclusivamente nel settore degli alloggi universitari (Aparto, Camplus)”. Soggetti già pronti spartirsi una cospicua quota dei 960 milioni di euro stanziati dal PNRR.

Tra i grandi investitori c’è Camplus, braccio operativo della Fondazione CEUR nel settore degli studentati, presente in 15 città in Italia e da qualche anno anche in Spagna, con 24 residenze e 11 collegi di merito, per un totale di 9.000 posti letto, rivolti – è scritto sul sito – a chi “studia, lavora, viaggia”, ma non a portata di tutti. A Roma nel Camplus San Pietro inaugurato un anno fa nel centralissimo quartiere di Prati, a due passi dal Vaticano, il prezzo di una stanza singola con bagno privato ammonta a 610 euro al mese, bollette escluse, la doppia 380 a persona. CEUR viene fondata nel 1990 da Maurizio Carvelli, imprenditore legato alla Compagnia delle Opere, braccio economico di Comunione e Liberazione, qualche anno prima di creare anche la Fondazione Falciola, che opera nello stesso settore. I due enti, che nel 2007 si sono fusi, come ammette lo stesso Carvelli, “hanno avuto uno sviluppo grazie a un percorso di sussidiarietà, ciò è accaduto attraverso lo Stato che ha finanziato il pubblico, ma anche il privato attraverso la legge n.338 del 2000. Questa idea sussidiaria considera il privato come partner, non come nemico”,  (si veda “Il mercato non è mai la soluzione” , da cui è tratta la citazione).

La politica sulle residenze universitarie in realtà si inserisce in una riorganizzazione complessiva dell’istruzione universitaria legata al nuovo modello economico e sociale emerso negli anni ‘90. A spiegarcelo, aiutandoci a collocare i temi di cui si discute oggi in un contesto più ampio, è Luca Scacchi, responsabile per la docenza universitaria della FLC Federazione Lavoratori della Conoscenza della CGIL.

Nelle manifestazioni dei giorni scorsi i sindacati studenteschi hanno sollevato il problema che molti dei 960 milioni del PNRR andranno a cofinanziare i grandi gruppi privati dello student housing. Qual è la posizione della CGIL?

La CGIL ha criticato il PNRR sin dalla presentazione, sia nell’impianto generale sia nella destinazione specifica dei fondi. Uno dei problemi è proprio che manca un intervento complessivo sugli studenti. Dei 14 miliardi di euro previsti per ricerca e università, di cui 11,5 più direttamente nel perimetro del MIUR, solo due andranno a rafforzare servizi, attività o strutture con ricadute sugli studenti. Qui però c’è un dato di fondo da cui partire, cioè che da 10 anni perdiamo studenti universitari. In Italia il tasso di iscrizione è uno dei più bassi in Europa e nei paesi OCSE, siamo al 27% contro il 40% dell’OCSE. E negli ultimi 10-15 anni è diminuito il numero assoluto – da 1,8 a 1,68 milioni di studenti e da 320.000 a meno di 200.000 matricole – ma anche il tasso di passaggio dalla scuola superiore all’Università è sceso del 3%-4%, avvicinandosi pericolosamente al 50%. Il picco negativo è stato toccato nel 2015, poi tra il 2018 e il 2020 c’è stato un parziale recupero, ma nell’ultimo biennio abbiamo registrato un nuovo arretramento del 3%.

A che cosa è dovuto questo fenomeno?

Ci sono varie ragioni, tra cui l’aumento delle tasse universitarie, ma c’è anche il problema degli affitti, che si intreccia con la diminuzione delle sedi universitarie. La Legge Gelmini del 2010 ha visto aumentare le differenze tra atenei sia in termini di organici che, più in generale, di fondi per il finanziamento ordinario. Alcuni, specialmente al sud, ma anche in alcune aree del nord (Trieste, Genova), si sono visti diminuire in modo significativo le risorse. Per le disposizioni del MUR, poi, tutti hanno dovuto chiudere diverse sedi periferiche, quelle nei piccoli centri. Così, nel complesso, sono aumentati gli studenti fuori sede e soprattutto si sono rafforzati i grandi poli universitari, verso i quali sono cresciuti i flussi di studenti dal sud: per citarne solo alcuni Milano, Padova, Bologna, Torino… Il PNRR, invece di intervenire sui problemi strutturali dell’università, su queste divergenze negli organici, nei fondi e nei flussi, ha destinato gran parte delle risorse a strutture o progetti di ricerca che ancora una volta ricadranno soprattutto sui soliti atenei. Quindi non riduce, ma moltiplica le differenze. E in questo processo, non interviene sugli studenti e sul diritto allo studio: non moltiplica sedi e corsi di laurea, borse e sostegni finanzari, mense e alloggi pubblici.

Qui c’è la questione delle case dello studente…

Esatto. Come sindacato abbiamo rivolto una critica specifica al modo in cui sono indirizzati questi 960 milioni per le politiche di housing studentesco. Si tratta di fondi ingenti, elargiti anche a strutture private e a fondo perduto per costruire residenze studentesche, 60.000 posti letto, senza alcun obbligo di rivolgersi agli studenti a cui è riconosciuto il diritto a prezzi calmierati o alla gratuità. Inoltre queste strutture possono avere anche altre destinazioni, in particolare quella turistica, per cui cambiano i vincoli edilizi. Una casa dello studente deve avere una dotazione minima di servizi – bagni, spazi comuni, cucine – ma questo sottrae spazi all’utilizzo turistico e quindi si interviene riducendo i vincoli.

Vuoi dire che nei periodi di alta stagione gli studenti dovranno liberare le loro stanze a beneficio dei turisti?

Esatto. Tra la metà di dicembre e i primi di gennaio oppure nei mesi estivi – “Quando gli studenti non hanno bisogno di utilizzarla” si dice – dovranno non solo andarsene, ma sgombrarle di tutte le loro cose. Una scelta che equivale a ignorare il modo in cui si svolge la vita di uno studente universitario. In quasi tutte le facoltà, infatti, sono previste sessioni d’esame ai primi di settembre: focalizzare il loro uso anche sui servizi turistici vuol dire comprimere la loro usabilità e la loro funzione per gli studenti.

In questi studentati l’accesso è legato al merito e le tariffe sono elevate, il che rischia di portare a compimento la selezione di classe iniziata negli anni Novanta. Non a caso in questi giorni in tv vengono trasmessi in modo massiccio gli spot di Pegaso, che insistono proprio sul fatto che “frequentare” un ’università telematica costa meno.

Intanto voglio dire che si cita molto la questione del merito, ma in Italia in realtà in questi ultimi 10 anni non abbiamo garantito il diritto allo studio proprio agli studenti meritevoli. Abbiamo studenti che hanno vinto una borsa, ma non ricevono i soldi perché sono finiti i fondi oppure che hanno diritto alla casa dello studente, ma non riescono a entrarci perché i posti letto sono esauriti. Insomma studenti a cui lo Stato riconosce un diritto legato anche al merito, che poi però non è in grado di erogare. Ma c’è un altro aspetto: non possiamo pensare a un sistema di diritto allo studio che ponga limitazioni eccessive sia in termini di merito che di ISEE, anzi, semmai dovremmo abbassare l’asticella. Non a caso, come FLC CGIL, in questi anni abbiamo posto il problema e la rivendicazione dell’accesso gratuito o quasi gratuito all’università (come avviene in altri paesi europei, come in molti Länder tedeschi o anche in Scozia), riducendo sostanzialmente la soglia che si produce all’ingresso. In Italia, per il funzionamento degli atenei, ai circa 8,5 miliardi di euro del Fondo di Finanziamento ordinario si deve aggiungere circa un miliardo e mezzo dei contributi studenteschi (nonostante le soglie ISEE e il diritto allo studio). Questa cifra va abbattuta sostanzialmente. Oggi l’accesso all’università è sempre più difficile, non solo per i redditi più bassi, ma anche per famiglie con due normali redditi da lavoro dipendente che insieme arrivano a 3.000-4.000 euro netti al mese. Sono famiglie che per i criteri ISEE sono a reddito elevato, ma in realtà fanno sempre più fatica a mantenere i figli all’università. Per questo vanno abbattute le tasse universitarie e deve esser sviluppato il diritto allo studio (mense a prezzi non di costo e alloggi). Tieni conto che nelle grandi città o nelle realtà turistiche – Milano, Roma, Firenze, Venezia – una camera doppia viaggia sui 900/1.000 euro al mese. Inoltre sono sempre più gli studenti costretti a lavorare, sennò non ce la fanno, e che si trovano schiacciati in un meccanismo che chiede loro di laurearsi più rapidamente e con voti sempre più alti.

In che modo questa pressione è legata ai mutamenti economici in atto dagli anni ‘90?

Questo modello si inserisce in un cambiamento del modo complessivo di concepire l’università. In questi anni l’università italiana ed europea hanno conosciuto una trasformazione strutturale. Hanno fatto proprie una serie domande legate ai mutamenti del mercato del lavoro e alla pressione del mondo imprenditoriale. Tutti i sistemi universitari hanno cioè conosciuto lo sviluppo dell’autonomia universitaria: la somma di un’aziendalizzazione degli atenei, una finalizzazione della ricerca al trasferimento tecnologico e al sostegno in generale dei tessuti produttivi, una trasformazione dei corsi per rispondere alle esigenze del mercato del lavoro, cioè si è trasformata sia l’architettura dei percorsi di studio, sia i diversi ordinamenti. Chi per primo enunciò la necessità di questa trasformazione a mia memoria fu Giancarlo Lombardi, negli anni ’90 ministro della Pubblica Istruzione di Dini ma proveniente da Assolombarda. Lombardi disse chiaramente che le imprese dovevano avere la possibilità di scegliere le persone a seconda delle proprie esigenze, ma che il sistema formativo italiano era fatto a gradoni, con livelli e indirizzi dei titoli di studio troppo ampi e generici, per cui bisognava moltiplicare il numero degli scalini, differenziare i livelli dei diversi percorsi formativi e la loro specificità, fino a creare così tanta scelta da arrivare a una curva continua, nelle quali le imprese avrebbero potuto scegliere liberamente quanto gli serviva. Le università hanno cominciato a differenziarsi, hanno creato i corsi triennali, il 3+2 (1999) e il 3 e 2 (2005), atenei sempre più diversi, corsi di laurea sempre più specifici con piani di studio sempre più rigidi. Così, si sono creati gli atenei di eccellenza, quelli normali, quelli a distanza, i corsi triennali, quelli abilitanti, quelli magistrali, i master di primo e secondo livello, i corsi di perfezionamento e gli aggiornamenti con i corsi singoli. Insomma, l’obiettivo non era più creare un lavoratore con una conoscenza generale della materia in cui si sarebbe laureato, capace poi di aggiornarsi anche autonomamente e saper scegliere specializzazioni formative ulteriori, ma uno specialista in grado di fare esattamente la cosa di cui l’impresa che lo avrebbe assunto aveva bisogno. Arrivati a questo punto punto non basta più laurearsi all’università sotto casa: devi trovare il corso di laurea specifico che fa per te, per cui sei costretto a spostarti, se non nel triennio almeno per la magistrale o per il master post lauream.

E in questo quadro si crea la nicchia delle scuole di eccellenza per le élites.

Esatto. Prima c’erano solo la Normale e Sant’Anna a Pisa, dove lo studente è iscritto alla Statale, ma come allievo della Normale ha vitto e alloggio gratuiti, più altri benefit come borse di studio, computer, possibilità di andare all’estero. Inoltre frequenta altre attività, dà esami in più, frequentando corsi di alta specializzazione erogati dalla propria struttura di eccellenza. Negli ultimi anni sono nate altre scuole di questo genere, a Pavia e a Lucca, poi la Normale meridionale a Napoli collegata alla Federico II. Ma un’altra quindicina di atenei in maniera informale ha creato residenze riservate agli studenti di eccellenza, cioè proprie scuole interne, erogando grossi aiuti in termini di vitto e alloggio, annullamento delle tasse, corsi sovrannumerari e tesi specifiche. Proprio negli ultimi anni questi percorsi sono stati riconosciuti dal Governo nella legge di bilancio, con l’assegnazione di un titolo di master per quel quid in più che ricevono e risorse dedicate. Qui c’è proprio un’altra concezione anche dell’università e del suo spazio, l’idea che gli studenti di eccellenza debbano studiare tutti insieme ed essere una comunità separata, con piani di studio flessibili e persino corsi interdisciplinari frequentati da studenti di facoltà diverse – ad esempio studenti di medicina o ingegneria che frequentano corsi di scienze umanistiche, storia o filosofia. Insomma, le università normali si professionalizzano e producono lavoratori iperspecializzati, quelle di eccellenza invece guardano in particolare all’interdisciplinarità e la generalità del sapere. Qui la stratificazione di classe è evidente.

CGIL e SUNIA hanno espresso piena solidarietà agli studenti che protestano. Cosa può fare il sindacato per sostenere questi studenti, molti dei quali sono lavoratori, spesso lavoratori della gig economy, rider, impiegati da McDonalds o da Starbucks con salari da pochi euro l’ora e magari anche in nero?

Il sindacato deve assumersi pienamente il tema dell’organizzazione di questa realtà, ma spesso lo fa in modo estemporaneo, in parte anche perché gli studenti sono un settore transeunte: il sindacato li incontra come precari, magari come studenti, ma non c’è mai un rapporto organico e continuativo come si instaura coi lavoratori a tempo indeterminato. L’altro problema è che la CGIL si rapporta a questi fenomeni mediante organizzazioni diverse oggi il SUNIA, domani l’FLC, dopodomani la FILLEA [edili], non sempre con obiettivi e punti di vista omogenei. Su questo bisogna lavorare e tutto sommato le manifestazioni dei giorni scorsi sono un’occasione.

Avete iniziative in programma?

In questi giorni il centro nazionale FLC e le organizzazioni studentesche sono costantemente in contatto sia per il supporto alle mobilitazioni sia per convergere, pur con linguaggi diversi, su iniziative e parole d’ordine. Ma questa collaborazione è il frutto di un lavoro più di fondo avviato nei mesi scorsi con le associazioni studentesche più vicine alla CGIL – UDU e LINK – a partire da una lettura complessiva di ciò che sta succedendo in università, anche allo scopo di sviluppare  vertenze comuni. Tu prima accennavi alle università telematiche. In Italia l’università a distanza esiste dai primi anni ’90: si chiamava consorzio Nettuno. Da una quindicina d’anni, proprio per questa esperienza, il modo in cui si fanno le lezioni online si era assestato su un modello codificato, a partire da linee guida specifiche dell’ANVUR, l’agenzia che valuta e certifica i corsi universitari. Uno dei principi era che ci vogliono attività integrative che permettano di verificare e fissare i contenuti delle lezioni.  Ad esempio ogni 5 ore di lezione un’ora con un tutor. Con la pandemia è cambiato tutto: piazzi una telecamera in aula e chi s’è visto s’è visto. E anche per i lavoratori, inclusi i docenti, il diritto alla formazione da quel momento spesso si limita alla formazione online. Anche qui emerge il contrasto col trattamento riservato alle scuole di eccellenza, dove la convivialità viene considerata un momento di formazione, mentre tutti gli altri si devono accontentare di stare a casa davanti a un monitor. Diventa un’altra dimensione su cui si sviluppa la stratificazione di classe dei percorsi formativi. Su questi elementi più generali, dalla questione dei fondi di finanziamento alla questione del diritto allo studio, dalla divergenza tra atenei al delicato problema del sostegno psicologico, come FLC stiamo sviluppando un confronto a largo raggio, proprio per sviluppare una convergenza di iniziativa e richieste. Lo facciamo, come naturale, con queste associazioni studentesche che sono più vicine al sindacato confederale come, nella tradizione della FLC, anche con precari, dottorandi e giovani ricercatori – ADI, ARTED, ecc. – come con tutte quelle realtà autorganizzate che si esprimono negli atenei e che cercano con noi un confronto e una possibilità di iniziativa comune, come assemblee, coordinamenti e movimenti, da “Restrike!” a collettivi studenteschi e realtà specifiche che ci sono nei diversi atenei.

Intervista tratta dalla newsletter di PuntoCritico.info del 16 maggio 2023.

TAG: FLC CGIL, Luca Scacchi, pnrr, studenti, Università
CAT: università

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