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Viaggi

Siamo la generazione del viaggio! Ne siamo sicuri?

di Alessandro Poma
17 Novembre 2017

“Il mondo è un libro e chi non viaggia ne legge solo una pagina” diceva Sant’Agostino di Ippona, Padre della Chiesa e pilastro fondamentale del Cristianesimo. Di certo per Agostino, che ha girato in lungo e in largo l’Impero Romano, il viaggio non era sicuramente una passeggiata: tra pericoli di tempeste, i Vandali alle porte e predoni ovunque, si può dire che il mondo tardoantico non fosse tutto rose e fiori.
Ciò detto, sembra che il buon Agostino, viaggiatore in un’epoca difficile, indichi tutti noi giovani millennials come peccatori mortali qualora non ci mettessimo lo zaino in spalla e non partissimo alla scoperta del mondo, lasciandoci dietro il nostro fardello di inquietudini dovute alla mancanza di lavoro e alla necessità di trovare una risposta alla eterna domanda “chi siamo?”.
Eppure, rispetto ai nostri genitori viaggiamo di più, c’è poco da fare. Nonostante la mancanza di denaro disponibile, siamo sempre pronti, in un modo o nell’altro, a partire. Voli low cost con annessa vendita di milioni di oggetti inutili in cabina (chi mai é stato così ricco da permettersi un volo Lufthansa o Air France?), pullman economici che ci mettono 12 ore a fare un banale Torino-Roma, passaggi ponte su traghetti nelle condizioni di una metaforica sistemazione “sotto il ponte”, per non parlare di Bla Bla Car, Airbnb e compagnia bella. Insomma in un modo e nell’altro si viaggia. Barcellona, Amsterdam, Berlino e Parigi non hanno segreti per i giovani europei, che più che un esercito del surf sono diventati un esercito di calpestatori delle piazze lastricate delle capitali, masticando, in un modo o nell’altro, qualche lingua dell’Unione. Il tutto grazie anche a quella benedizione chiamata Erasmus, che ha permesso a molti universitari un contatto diretto con la meglio gioventù degli altri paesi europei, fondata sullo scambio di idee, concetti e modi di vivere. Insomma per gli under 30 l’idea di Stati Uniti d’Europa non sembra essere così balzana.
Globalizzazione e internet hanno poi fatto la loro. Lo spazio sembra, per qualche strano giochetto fisico, essersi accartocciato su se stesso, e, mentre le distanze tra i vari paesi vengono annullate, merci e idee viaggiano da un capo all’altro del mondo a una velocità impensabile fino a qualche decennio fa.
Sembra quindi che l’insegnamento di Agostino sia stato recepito: “mission accomplished” direbbe un alter ego di George Bush tifoso del viaggio.
Ma siamo sicuri di viaggiare davvero? Quella che sembra presentarsi come una domanda retorica molto scomoda è in realtà la chiave per capire se il nostro viaggiare sia simile a quello dei nostri predecessori o se invece sia totalmente diverso. Siamo sicuri che il nostro modo di spostarci ci permetta davvero di comprendere quelle che sono le peculiarità dei luoghi dove andiamo, assaporando le loro culture e emozionandoci di fronte alla diversità di quelle terre, oppure siamo solo dei viaggiatori manicali di selfie, calpestatori di professione di Harrods o delle Gallerie Lafayette, e consumatori abituali di musei e monumenti, quasi come se l’Acropoli di Atene e il Colosseo fossero un Big Mac? Nell’epoca del sushi all’you can eat a 20 euro, siamo sicuri che sia importante volare fino a Tokyo per assaporare quello originale?
A tutte queste domande non c’è una risposta universale, sarebbe una violenza intellettuale nei confronti delle emozioni e dei sentimenti che ognuno di noi prova durante il viaggio. Ognuno è unico nel suo genere e il suo modo di spostarsi riflette la sua sacra unicità. La risposta deve essere cercata dentro se stessi, nessuno può calarla dall’alto.
Rimane solo una cosa da fare: zaino in spalla e via.

viaggio
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