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Scuola

Bussetti, l’INVALSI e il Sud

di Teresa D'Errico
16 Luglio 2019

Si è detto molto, forse troppo, sull’ultimo rapporto INVALSI. Il dato è chiaro: gli studenti del Sud non comprendono quello che leggono e con la matematica non va meglio. Questa informazione rimbalza sulle testate giornalistiche e sui social diventando la dimostrazione logica di un teorema da tempo elaborato, l’alibi giustificativo per l’attuazione di politiche emancipatorie dal peso di uno scomodo Mezzogiorno.
Gli esperti si sono lungamente spesi sull’insensatezza e sul carattere antipedagogico dei test standardizzati, quindi è superfluo parlarne.
Risulterebbe poi ripetitivo – se ne è discusso tanto – sottolineare la forte iniquità sottesa alla imposizione di questionari omogeneizzanti a studenti, scuole, realtà che omogenee non sono: non occorrono, infatti, i report INVALSI per apprendere che c’è differenza tra i risultati conseguiti dagli studenti del Nord metropolitano e quelli ottenuti da alunni iscritti in scuole di piccoli borghi situati nell’entroterra di qualche area sperduta del Meridione la cui economia si regge su attività di pesca e pastorizia o turismo stagionale e dove gli inverni sono lunghi, vuoti, senza stimoli e le estati calde sono fatte di lavoro, non di alternanza scuola-lavoro, ma di fatica per aiutare genitori in difficoltà serie e rincuorati solo da momentanee boccate di speranza legata al turismo vacanziero. Ebbene i deludenti risultati degli studenti del Sud non possono che essere diversi da quelli ottenuti dai rampolli della benpensante borghesia milanese, proiettata nel cuore dell’Europa, pronta a mandare i propri pargoli in viaggio studio a Dublino e abituata ad accompagnarli di pomeriggio a lezioni di pianoforte o danza. Per studenti del genere gli stimoli sono innumerevoli, l’infanzia e l’adolescenza hanno precisi tempi scanditi, l’estate per loro è un periodo di svago e di relax – come è giusto che sia – nessuno chiede a questi ragazzi di svolgere lavori stagionali per contribuire alle dissestate finanze familiari.
Questo è lo scenario del profondo Sud: ambita meta turistica che si regge, anche, sul sacrificio dei giovani. E se la politica non interviene a modificare la situazione, molti di questi ragazzi abbandoneranno – anzi, già abbandonano – la scuola, un lusso che non possono permettersi. E il problema emergenziale, a questo punto, non è più la scarsa comprensione dei testi.
Non è neanche il caso, inoltre, di ricordare che una volta rilevata l’incompetenza degli studenti del Sud i governi che si sono avvicendati non hanno mai fatto niente per modificare e migliorare la situazione: gli studenti del Sud sono “asini” e “asini” restano. L’INVALSI si limita a diagnosticare, pretende di valutare e non solo non propone soluzioni adeguate, ma non si premura neanche di restituire alle scuole, nel dettaglio, gli errori degli studenti. Nessun docente può conoscere con precisione in che cosa gli studenti a lui affidati sono stati carenti, eppure, avviare una riflessione, consentire ai giovani una consapevole autocorrezione, sarebbe un buon inizio per riavviare un sistema languente. E, invece, l’ente INVALSI che millanta azioni di monitoraggio, di fatto impedisce un possibile progresso: stiamo forse parlando  di scienze occulte?
Un fatto è certo, Bussetti lo ha detto senza infingimenti: gli esiti negativi dipendono dalla didattica.
Insomma, nell’ottica del Ministro Bussetti, al Sud i docenti non sanno insegnare. E comunque non si impegnano abbastanza.
Si potrebbe obiettare che si tratta di una prospettiva miope, dal momento che una cospicua percentuale dei docenti che lavorano al Nord, proviene dal Sud.
C’è anche da chiedersi: insegnare a leggere un testo e a interpretarlo differisce in modo così netto se lo si fa al Nord o invece al Sud?
A questo punto tutto sembra chiarirsi: Bussetti non tiene conto del fatto che sottrarre tempo alla didattica con attività pseudoculturali volute proprio dal MIUR (commemorazioni, progetti, iterate simulazioni di prove d’esame, attività di orientamento, partecipazioni a eventi straordinari di rilevanza indiscutibile, alternanza scuola-lavoro in cui la scuola a dire il vero non si alterna a niente se non a snervanti lezioni frontali all’università) e distrarre gli studenti con iniziative che ormai nella scuola sono diventate prioritarie su tutto,  ha un prezzo, forse più alto al Sud, dove l’ambiente familiare non sempre è di sufficiente supporto alla formazione completa dei giovani e dove spesso la scuola resta il solo avamposto contro criminalità e povertà educativa.
Bussetti trascura, peraltro, il fatto che la annosa demonizzazione delle discipline umanistiche (tra le quali, va ricordato, rientra l’educazione alla lettura) si paga con l’incompetenza degli studenti, più evidente al Sud, dove i genitori ormai – è un dato che chi scrive rileva nella propria città, Foggia – tendono a scegliere per i loro figli i licei depotenziati, scuole, cioè, in cui la soppressione del latino è un motivo in più per ridurre i tempi da dedicare alla riflessione linguistica. Ovviamente anche senza il latino si può svolgere un eccellente studio della lingua madre, tuttavia è innegabile che il latino aiuta, a meno che non lo si voglia rendere una inerte materia per pochi eletti cultori di griffe retro-chic. Studiare il latino deve servire a migliorare la conoscenza e l’uso dell’italiano. Ma per molti si tratta di una materia inutile, a causa di un malinteso e per certi aspetti anacronistico donmilanismo.
Infine, la verità: se al Sud gli studenti sono ignoranti e i docenti non sanno insegnare, dunque urge la regionalizzazione. Ecco la dimostrazione del teorema. Sarà una semplificazione, ma per Bussetti  e  suoi sodali, significherebbe, finalmente, liberarsi di tutta questa zavorra del Sud.

Scriveva Alexandre Dumas: in politica, caro mio, lo sapete quanto me, non ci sono uomini, ma idee: non sentimenti, ma interessi; in politica non si uccide un uomo: si elimina un ostacolo, ecco tutto.

E se l’ostacolo è un pezzo d’Italia, basta cancellare la Storia, il Risorgimento, il senso di appartenenza. E se poi tutto questo stride con il nazionalismo sovranista che il partito di Bussetti ha abbracciato come linea ideologica, basterà chiamare la secessione – che in effetti si vuole – con un nome edulcorato, per esempio “autonomia differenziata”, politically correct, costituzionalmente garantita, nata da quelle ben note, ipocritamente buone intenzioni di cui è lastricata la solita via per l’inferno.

Cultura politica scuola
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