Il marketing accademico sta corrompendo la scienza

8 Novembre 2014

Falsificazione o manipolazione di dati, plagio, pubblicazioni inutili, valutazioni (peer review) inventate di sana pianta. E l’elenco potrebbe continuare. In parallelo con la competizione globale fra università e l’enfasi sul “ranking”degli atenei, aumentano anche le  frodi accademiche. Il fenomeno è destinato ad acuirsi se carriere, finanziamenti e prestigio saranno sempre più decisi sulla base del mero volume delle pubblicazioni. In Gran Bretagna, per citare un caso fra i tanti, secondo uno studio condotto dal British Medical Journal sui propri autori, il 13% dei ricercatori ha ammesso di conoscere colleghi che hanno alterato o inventato dati pur di pubblicare una ricerca. E in Italia che succede?

In Italia di queste cose non si discute perché l’attenzione è assorbita dal tema dei concorsi universitari truccati e dall’annosa questione dei baroni. Problema grave, certo. Spesso oltre i limiti della decenza. Ma che, come insegnano i casi di Taiwan e della Cina, difficilmente sarà risolto con la panacea della “produttività” pubblicistica.

Di seguito un estratto di un contributo che Andrea Mariuzzo, ricercatore alla Scuola Normale di Pisa e brain de Gli Stati Generali.

 

LO SCORSO LUGLIO LA SAGE PUBLICATIONS, una delle più quotate case editrici scientifiche a livello mondiale, ha dovuto ritrattare sessanta articoli pubblicati tra il 2010 e il 2013 su una delle sue riviste, il Journal of Vibration and Control, a causa di fondati indizi relativi all’utilizzo di profili fittizi per bypassare procedure di peer-review facendo in modo che l’autore potesse valutare se stesso, e all’accordo tra autori “amici” per citarsi sistematicamente l’un l’altro e giudicarsi in modo favorevole.

Le dimensioni dello scandalo e l’alto livello dei ricercatori coinvolti, per lo più orbitanti attorno ai maggiori istituti universitari di Taiwan, sistema accademico in crescita e considerato di grande rilievo nella regione pacifica, hanno prodotto una vasta eco, fino a costringere le dimissioni del ministro dell’Educazione del paese asiatico, studioso che aveva avuto contatti con membri in vista del “cerchio magico” di imbroglioni seriali.

In effetti, per quanto nei suoi comunicati ufficiali SAGE abbia cercato di limitare i danni scaricando ogni responsabilità sui singoli (…), un affare così grosso, caratterizzato soprattutto dalla concentrazione delle pubblicazioni incriminate in una specifica area di ricerca, getta ombre piuttosto sinistre su un campo di studi in cui l’imbroglio si sta imponendo come elemento costitutivo del costume accademico, e in cui il ruolo di alcuni gruppi di lavoro collettivi sia sempre più chiaramente quello dell’autopromozione fraudolenta dei propri membri invece dello sviluppo cooperativo della conoscenza. Ciò è tanto più vero perché, anche prima che esplodesse un caso limite come questo, altre indagini hanno gettato dubbi sulle modalità in cui alcune realtà emergenti nel mondo della produzione della conoscenza si stavano imponendo all’attenzione internazionale.

Lo scorso anno l’Economist ha puntato l’attenzione sulla Cina, evidenziando il sempre più frequente ricorso alla falsificazione dei dati volto a far apparire come successi ricerche fallimentari o di esito contraddittorio, o alla pubblicazione in fake journals per rimpinguare il proprio curriculum. In breve, dalle proiezioni dell’Economist risulta che quello della produzione e della promozione di titoli scientifici privi di valore sia ormai divenuto in Cina un autentico mercato, capace di quintuplicare il fatturato in appena un paio d’anni e di proporsi come opzione interessante anche al di fuori dei confini nazionali. Infatti, concludono gli autori dell’inchiesta, nei sistemi che hanno importato solo negli ultimi anni i più articolati tentativi di offrire rigorose valutazioni comparative dell’attività di ricerca fondi e promozioni sono stati assegnati “sulla base del numero di articoli pubblicati, non sulla qualità della ricerca orginale», con effetti dirompenti proprio sulla scrittura scientifica e sul modo di interpretare il proprio lavoro quotidiano da parte degli studiosi.

La collocazione dei risultati della ricerca nei circuiti di comunicazione scientifica internazionale, infatti, in questi contesti acquisisce valore pressoché esclusivamente in quanto tassello di base della più complessa rilevazione dell’impatto intellettuale e professionale attraverso l’aggregazione dei dati misurabili di diffusione di testate e singoli articoli in banche dati. (…) La conclusione a cui conduce questo quadro d’insieme è che effettivamente nei meccanismi di assessment istituzionale delle attività di ricerca si stia aprendo un campo aperto ad attività di vera e propria corruzione, soprattutto in realtà nazionali e regionali in cui la comunità scientifica è ancora relativamente ristretta e gode di margini di azione ampi per l’inadeguatezza (o la connivenza) di chi dovrebbe essere preposto a controllarla dall’esterno.

Il rischio del dilagare incontrollato di queste pratiche man mano che la “denazionalizzazione” dei sistemi di ricerca scientifica e accademica si presenta in termini di ossessione per l’assessment “oggettivo” e “misurabile” è proprio uno degli allarmi più sentiti tra quelli lanciati in uno dei suoi ultimi reports di settore da Transparency International, l’osservatorio internazionale indipendente sulla corruzione. Uno degli esperti che ha contribuito alla stesura del documento, David Chapman, è stato particolarmente chiaro a questo proposito, quando ha fatto notare che di fronte alla necessità di garantire almeno l’apparenza dell’eccellenza e la soddisfazione sulla carta di certi standard qualitativi che investe le singole sedi universitarie in lotta per la loro sopravvivenza economica, i vertici degli atenei possono essere condotti a rendere meno stretti e certi i controlli sul comportamento del loro dipendenti. Fino ad arrivare a chiudere gli occhi sul mercanteggiamento dei voti o sull’instaurazione di inappropriati rapporti di ghost writing e di “svendita” dei servizi di docenti e ricercatori in settori for profit… o addirittura al tentativo di corruzione diretta o indiretta sulle agenzie che definiscono i ranking internazionali, sui centri di analisi dell’impatto delle ricerche e sulle edizioni delle principali riviste peer-reviewed, anch’essi tutt’altro che impermeabili a queste pressioni viste le loro strette relazioni con la realtà del “marketing accademico”.

Curiosamente, di questi casi e di queste prese di posizione, all’opinione pubblica italiana non è giunta pressoché alcuna voce. O forse non si tratta di una eventualità straordinaria, visto che nelle inchieste e nelle indagini qui prese in considerazione si è parlato solo marginalmente dell’unico ambito che l’immaginario collettivo di giornalisti e lettori del nostro paese riconduce alla “frode accademica”, ovvero la selezione concorsuale del personale. In effetti, quando si parla di comportamenti poco commendevoli e poco onesti del personale accademico tutti noi pensiamo, non senza ragione, ai comportamenti spesso ben oltre il limite della decenza di tante, troppe commissioni sospese tra le pressioni delle sedi locali e gli appetiti di gruppi di potere (…). Ma il fallimento di tutti i tentativi di rimettere in riga i “baroni” riottosi con regolamenti  di reclutamento sempre più arzigogolati e proclami sempre più altisonanti al merito e all’eccellenza dovrebbe farci capire che la necessità di trasparenza e di corretta espressione degli interessi in campo riguarda campi di attività assai più ampi (…).

Per converso l’importazione delle parole d’ordine della verifica “quantitativa” della qualità con lo zelo dei neofiti pronti a “valutare e punire” piuttosto che a informarsi e comprendere, e senza la dovuta attenzione ai necessari anticorpi per il loro abuso ormai in formazione nell’opinione pubblica internazionale coinvolta, rischia seriamente di offrire ai gruppi di interesse impegnati nella gestione delle nostre cose accademiche e disponibili a distorcere la correttezza delle procedure nuove armi. Armi potenzialmente incontrollabili, vista l’incapacità dei “controllori” dell’amministrazione ministeriale di comprenderne dinamiche interne e funzionamento. Questo chiariscono alcuni recenti esempi internazionali, e questo sembrano suggerire i primi responsi definitivi del reclutamento svolto secondo le normative della legge Gelmini, con buona pace di quelli che all’inizio dell’anno affermavano pieni di speranza che “manipolare i concorsi sarà più difficile”.

 

Il contributo integrale può essere letto qui

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